Scritto nell’ambito di un dottorato di ricerca in Visual and Media Studies, Mostra come medium (Mimesis, pp. 284, euro 28) di Vincenzo Di Rosa è l’analisi di mostre che hanno contribuito a sfumare i confini tra la produzione e l’esposizione dell’arte.
La sua ricerca arricchisce il dibattito degli exhibition studies, una disciplina che esamina la storia dell’arte contemporanea attraverso gli sviluppi chiave della forma espositiva. Il libro raccoglie elementi a sostegno della tesi che le mostre possano essere considerate un medium artistico a sé, sottolineando il ruolo cruciale che hanno avuto gli artisti nel «modellare» il fenomeno delle rassegne stesse.
PIÙ CHE STRUTTURE preposte al solo scopo di esibire e presentare, le mostre – teorizza l’autore – specie sulla spinta di pratiche espositive inedite diffusesi a partire dagli anni ’60, rispondono a un nuovo paradigma, che le riconosce come esposizioni-opere, ponendo l’accento sulla rete che connette le opere al suo interno. Di Rosa ripercorre le tappe di questa rivoluzione e le fa derivare dall’emergere di modalità allestitive irregolari, evidenziando alla radice il progressivo convergere di pratica curatoriale e pratica artistica.
Nel libro, infatti, troviamo mostre che hanno reinterpretato le collezioni museali facendo emergere le ferite della schiavitù e di una storia coloniale come Mining the Museum: an installation by Fred Wilson (1992), e rassegne che hanno promesso un’esperienza fortemente partecipativa e dichiaratamente ludica, come Dylaby (1962). Altre, invece, si sono poste come atti politici permanenti – vedi Tucumán Arde del collettivo argentino Grupo de Artistas de Vanguardia (1968: la mostra abbinava le opere a un esercizio di controinformazione sulla situazione di povertà che il governo del dittatore Juan Carlos Onganía voleva nascondere). Poi, esistono mostre che sono la traduzione di racconti fantastici come Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst (2017); anche, pensate dagli artisti come fossero il loro autoritratto: Museo Museion di Francesco Vezzoli (2016) ne è un esempio.
Una raccolta incalzante che si aggruma intorno alle cinque figure paradigmatiche dell’esposizione anti-museo, della mostra labirinto, politico-attivista, della mostra fiction o autoritratto. A queste si aggiungono, quelle di due autori che della «messa in mostra» hanno fatto la loro pratica artistica: Pierre Huyghe e Philippe Parreno fanno collimare produzione ed esposizione.
SE QUESTO LIBRO è in parte una collezione di esposizioni-opere, è anche una meditazione su una scrittura della storia dell’arte che non può che poggiare sulla «biografia» delle mostre. Con la conseguenza di essere una storia che non può che costruirsi a partire da uno sguardo interno e allargato, uno sguardo che ha attraversato lo spazio della mostra, che ha condiviso quello spazio con le opere, e che, a posteriori, si sforza di ricordare e chiede a chi legge di immaginare.
È una storia che deve misurarsi con la contingenza, con la durata effimera delle esposizioni e con una distanza ravvicinata rispetto all’oggetto del suo studio. Il libro sembra invitare chi legge a regolare la propria distanza, modificare una postura critica e ricalibrare lo sguardo, per una messa a fuoco della storia delle mostre che pare si possa rimodellare anche tempo dopo che il gioco è finito.