Non sono certo mancate negli ultimi mesi le interviste di Vladimir Putin, rilasciate ai media interni e internazionali, in cui ha detto che la Russia non è l’Urss, che l’Occidente sbaglia a trattare Mosca come fosse ancora la capitale dell’Unione Sovietica. Ancora giovedì scorso, con ogni probabilità a uso esterno, aveva incolpato nientemeno che Lenin – nel 92° anniversario della morte – di aver minato con le sue idee la struttura statuale russa. Invano.

A Ovest le misure si prendono ancora con il metro della guerra fredda. E se l’«impero del male» (l’ex Unione sovietica per Ronald Reagan) era comunque sempre responsabile di ogni delitto, dentro e fuori i propri confini, è così, per assunto, anche per la Russia.

A due giorni dalla pubblicazione del rapporto inglese sull’avvelenamento dell’ex agente – non del Kgb, come hanno ripetuto molte tv – ma del Fsb (a libro paga inglese e spagnolo) Aleksandr Litvinenko, secondo cui, con ben strano linguaggio giudiziale, è «probabile» che l’azione degli agenti Lugovoj e Kovtun sia stata approvata dall’allora capo del Fsb Nikolaj Patrušev e, per estensione, dal presidente russo Vladimir Putin, il meno che si possa dire è che sia molto «probabile» un marcato intento mediatico della divulgazione del rapporto.

Già nella giornata di giovedì, la portavoce del Ministero degli esteri russo Marja Zakharova, aveva detto che Mosca è dispiaciuta «che un affare squisitamente criminale sia stato politicizzato e abbia gettato ombre sulle relazioni bilaterali. È evidente come la decisione di interrompere le indagini del coroner e dare il via a «audizioni pubbliche» abbia avuto un «retroterra politico». Zakharova ha caratterizzato le indagini come politicamente disegnate e altamente torbide; in Russia, ha detto «non c’erano presupposti per attendersi» un rapporto obiettivo e spassionato.

In generale, a Mosca si rileva con ironia la tendenza all’alta e misteriosa mortalità, in territorio inglese, di cittadini russi «lavorati» dai servizi segreti britannici. Una fonte anonima ha dichiarato a Interfax come, al momento della decisione sulla «indagine pubblica» per l’affare Litvinenko, in circostanze non chiare siano morti due testimoni chiave. Uno è David West, proprietario del ristorante Abracadabra, dove si incontravano Litvinenko e Berezovskij e in cui furono trovate tracce di polonio due giorni prima dell’incontro di Litvinenko con Lugovoj e Kovtun. L’altro testimone è lo stesso Berezovskij, per il quale il coroner si limitò a una «conclusione aperta»: in poche parole, si seguì solo la pista dell’incidente.

Ora, continua la fonte di Interfax, in Gran Bretagna si riaprono le indagini sulla morte di un altro cittadino russo, Perepilinyj e si scopre che la polizia aveva nascosto alla precedente inchiesta i materiali sul «lavoro» condotto su di lui dai servizi segreti britannici.

Da parte sua, il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov ha dichiarato di giudicare quella inglese una «quasi-inchiesta» e di ravvisare nel passo di Londra una minaccia di peggioramento delle relazioni bilaterali. Mosca, ha detto Peskov, ha sempre «contato su uno stretto coordinamento coi britannici nell’inchiesta. Purtroppo, essi hanno congelato non solo la cooperazione, ma anche il dialogo».

Peskov ha detto che Mosca avverte il rapporto non come una vera inchiesta, dato che vi si parla di giudizi probabili, con l’uso di parole come «possibile» e «probabile». «Questa terminologia – ha dichiarato – non è accolta nella nostra giurisprudenza, non è consentita nemmeno nella giurisprudenza di altri paesi e indubbiamente non possiamo vederla come un verdetto».

Uno dei personaggi chiave della vicenda, l’ex agente e oggi deputato alla Duma russa Andrej Lugovoj, ha detto ieri che il rapporto inglese in cui si parla del suo coinvolgimento, è un affare interno britannico: «Evidentemente ci sono diverse élite in lotta tra loro a chi si azzuffa con la Russia in modo più velenoso», ha detto.

E, ancora più evidentemente, incapaci di accordarsi sul tipo di rapporti con Mosca nell’attuale contingenza internazionale.

Una volta di più, per dirla con Quintiliano, l’importante non è quello che si dice, ma quando lo si dice.