Per ora non ci sono conferme, né da Mosca né da Damasco: il Ministero della Difesa russo si è limitato a dire che la verifica della presunta morte del leader dello Stato Islamico Abu Bakr al Baghdadi – al secolo Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri – è in corso.

Da ieri mattina sui media di tutto il mondo rimbalza la notizia del decesso dell’autoproclamato califfo a Raqqa, a fine maggio, in un raid russo. Una notizia che in passato era più volte emersa per essere poi smentita.

Stavolta, secondo gli osservatori internazionali, c’è però un elemento in più: il silenzio di al-Baghdadi in occasione dell’inizio del mese sacro di Ramadan. Negli ultimi anni il leader dell’Isis aveva inviato messaggi agli adepti sul campo di battaglia e fuori nel primo giorno di Ramadan.

Quest’anno il silenzio: l’ultima comunicazione risale al novembre 2016, poche settimane dopo il lancio della controffensiva governativa irachena su Mosul.

Secondo quanto dichiarato da Mosca, il bombardamento sulla “capitale” dell’Isis è stato compiuto il 28 maggio, dieci minuti di raid notturno che avrebbe colpito un meeting del califfato: «Trenta comandanti dei gruppi militari del cosiddetto consiglio militare dell’Isis e circa 300 miliziani che si occupavano della loro sicurezza sono stati eliminati – si legge nel comunicato del Ministero – Secondo le informazioni che sono al momento al vaglio, il leader Abu Bakr al-Baghdadi era presente al meeting ed è stato eliminato».

Fino a poco tempo fa si riteneva che al-Baghdadi, sulla cui testa pesa una taglia di 25 milioni di dollari del governo statunitense, si trovasse nel nord ovest dell’Iraq, a Baaj, zona desertica a poca distanza dal valico di al-Qaim con la Siria, ripresa a inizio giugno dalle milizie sciite irachene.

Secondo altre fonti locali, invece, il “califfo” sarebbe nascosto a Deir Ezzor, altra roccaforte islamista nel nord-est della Siria. Fonti che muovono dei dubbi: perché il leader Isis avrebbe dovuto rifugiarsi a Raqqa, ormai circondata dalle Forze Democratiche Siriane e costantemente colpita dai raid Usa e russi, quando avrebbe a disposizione centinaia di chilometri quadrati di deserto?

La ragione potrebbe trovarsi nel totale accerchiamento che oggi vive il progetto statuale del califfato, proclamato nel giugno 2014. Nei due anni seguiti al discorso pubblico di al-Baghdadi nella mosche al-Nouri di Mosul, prossima alla caduta, lo Stato Islamico ha vissuto la sua massima espansione per poi subire un graduale ridimensionamento.

In Siria è stato allontanato da Palmira, Kobane, Jarabulus, in Iraq da Ramadi e Fallujah, dalle provincie di Salah-a-Din e Diyala. E ora è arroccato in pochi chilometri quadrati nel cuore di Mosul e difende come può Raqqa.

Al fallimento del progetto di entità statuale non corrisponde però un disimpegno militare: nei paesi dove gode di una presenza diretta o di gruppi che hanno giurato fedeltà al califfo, l’Isis riesce a colpire con cadenza settimanale, con attentati brutali contro civili e contro i simboli di quelli che etichetta come miscredenti.

Libia, Iraq, Siria, Yemen, per ultimo l’Iran: cellule islamiste si muovono con estrema facilità nelle contraddizioni e le difficoltà degli Stati falliti ma anche nel cuore delle potenze regionali. Dietro stanno la fascinazione del progetto, la modernità dei mezzi di propaganda intrecciata ad un messaggio conservatore e manicheo, la capacità di attirare nuovi adepti pescandoli nel fallimento delle ideologie mediorientali, a partire dal collasso del panarabismo e del socialismo arabo che hanno lasciato un enorme vuoto identitario.