La morte di Kang Kek Iew avvenuta nell’ospedale dell’Amicizia sovietica-cambogiana di Phnom Penh, non può non lasciare un senso di amarezza per tutti coloro che hanno seguito da vicino le vicende dei Khmer Rossi e di Kampuchea Democratica e chi lo ha conosciuto di persona. Soprannominato «Duch», Kang Kek Iew ha avuto una parte attiva nel repulisti politico ordinato da Pol Pot dopo il 1976 e che ha scardinato la base moderata del movimento gettando un intero Paese in un esperimento sociale unico al mondo e al tempo stesso tragico.

Nato nel 1942 da una famiglia di etnia cinese, rivelò ben presto un talento sopraffino per la matematica ottenendo una borsa di studio al prestigioso Liceo Sisowath e classificandosi secondo agli esami di baccalaureato nazionale. La sua carriera di insegnante avrebbe avuto sbocchi più che lusinghieri se non fosse stato arrestato da Sihanouk con l’accusa di essere comunista.

Datosi alla macchia aderì al movimento dei Khmer Rossi. Son Sen lo prese sotto la sua tutela e dopo la conquista di Phnom Penh nel 1975 lo nominò direttore della S-21, la principale prigione politica, oggi trasformata in Museo del genocidio.

Qui, ben presto iniziarono a confluire i rivoluzionari comunisti che non si attenevano alla linea dell’Angkar o che, allarmati dalla deriva che stava prendendo la rivoluzione, osavano contrapporre ad essa una visione più moderata.

Controrivoluzionari e traditori al servizio della Cia, del KGB, dei vietnamiti, dei thailandesi, queste le accuse con cui migliaia di ex guerriglieri Khmer Rossi furono portati alla S-21, accuratamente schedati, interrogati e uccisi. Gli archivi che Duch aveva custodito e aggiornato con dovizia e logica matematica testimoniano l’escalation con cui il governo di Phnom Penh purgava i suoi avversari: 154 prigionieri nel 1975, 2.550 nel 1976, anno in cui Pol Pot prese in mano le redini del potere, 2.330 nel 1977 e, nel 1978, la cuspide su cui furono uccisi 5.765 reclusi. In totale più di 10.000 dirigenti, quadri, amministratori locali, contadini passarono attraverso gli occhi di Kang Kek Iew. A loro si aggiunsero i famigliari, mogli, figli, amici. In totale si stima che tra 12.000 e 16.000 cambogiani vennero internati, interrogati, molti torturati ed infine uccisi.

Il 7 gennaio 1979, quando l’esercito vietnamita arrivò a Phnom Penh scacciando la dirigenza Khmer Rossa ad ovest verso la Thailandia, solo una dozzina di prigionieri vennero ritrovati in vita. Duch aveva lasciato il suo ufficio solo poche ore prima. Si ritrovò solo ed isolato a fuggire dai vietnamiti e dall’esercito cambogiano di Ieng Samrin prima e di Hun Sen poi, rifugiandosi nella giungla e nell’accomodante Thailandia. Qui conobbe una comunità cristiana evangelica.

Ritrovò la fiducia in una nuova vita e nella salvezza. Lavorò come aiutante medico e come insegnante di matematica fino a quando, nel 1999, non venne rintracciato da Nick Dunlop, un fotografo irlandese. A differenza dei suoi compagni Khmer Rossi, Duch non si nascose e ammise la sua vera identità. La sua conversione era totale e non poteva mentire.

Nel 2007 fu il primo dirigente di Kampuchea Democratica ad essere arrestato. Fu anche l’unico ad ammettere le sue colpe. Quando lo intervistai, nel 2013 e nel 2015, si presentò con una Bibbia consunta e fittamente annotata. Nei colloqui intercalava interi brani tratti dai Vangeli e dai Salmi. Era pentito, ma di un pentimento sincero, non opportunista. Quando gli chiesi cosa desiderasse negli ultimi anni della sua vita mi rispose: «Credo nella salvezza di Cristo, sono già libero, ma prima di andarmene voglio ottenere il perdono di chi ho offeso.»
È stato forse l’unico dirigente tra quelli processati e condannati dal Tribunale speciale per i Khmer Rossi ad averlo conquistato.