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Morti di fame e di tregua

Morti di fame e di treguaTank dell'esercito iracheno a Ramadi – Reuters

Siria Madaya è il fallimento dell’accordo tra Damasco e opposizioni, modello al futuro negoziato. Spunta la exit strategy Usa: Assad fino al 2017. L’inviato dell’Onu de Mistura è volato nella capitale per preparare il dialogo in vista dell’incontro di Ginevra del 25 gennaio

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 9 gennaio 2016

Madaya come Yarmouk, comunità sotto assedio interno ed esterno e affamate dalla guerra civile siriana. Le immagini dalla città a meno di 10 km a sud di Zabadani, al confine con il Libano, ricordano la vergogna delle foto che due anni fa raccontarono la tragedia del campo profughi palestinese a Damasco. La situazione è quasi la stessa: opposizioni all’interno, truppe governative e combattenti di Hezbollah all’esterno, un cessate il fuoco che impiega troppo tempo a diventare reale.

Dal primo dicembre, secondo Medici Senza Frontiere, sarebbero già 23 le vittime della fame, oltre 40mila i civili ancora bloccati a Madaya nonostante l’accordo stipulato a settembre tra il governo di Damasco e le opposizioni (gli islamisti del Fronte al-Nusra e Ahrar al-Sham e i moderati dell’Esercito Libero Siriano): le prime evacuazioni di miliziani anti-Assad da Zabadani verso la Turchia è cominciata a fine dicembre ma Madaya resta sotto assedio.

Giovedì Damasco ha dato il via libera all’Onu, l’ingresso necessario a distribuire cibo e acqua sarebbe previsto per lunedì. Eppure è urgentissimo: la gente sta letteralmente morendo di fame, costretta a sopravvivere con sale e acqua o ingurgitando le foglie degli alberi. I prezzi sono saliti alle stelle, 34 dollari per un chilo di zucchero e riso, 47 per un chilo di farina: i prodotti alimentari vengono rivenduti a costi impossibili da chi li ha nascosti in precedenza, che siano altri civili che fanno sciacallaggio o miliziani anti-Assad.

A raccontarne con foto e video il calvario è la campagna online #Respond. «Morire in fretta per un missile dell’esercito siriano è più misericordioso che morire lentamente – racconta ad al Monitor l’attivista Manal al-Abdullah – Stiamo morendo in questa grande prigione, non ci autorizzano ad andarcene o a procurarci il cibo. Chiediamo a governo e opposizioni di tenere i civili fuori dalle loro dispute».

Il mondo, in ritardo di mesi, oggi accusa Damasco e i libanesi di Hezbollah di impedire l’ingresso di aiuti e di intrappolare i civili per impedire la fuoriuscita dei miliziani nelle settimane calde della battaglia per Zabadani. Hezbollah reagisce: su al Manar il gruppo dice di aver consegnato ad ottobre numerosi camion di cibo (confiscati però dalle opposizioni) e di averne in programma altri in questi giorni e accusa Ahrar al-Sham, al-Nusra e Esercito Libero di tenere in ostaggio i civili, sparare a vista a chiunque tenti di fuggire e controllare il poco cibo a disposizione per rivenderlo a prezzi astronomici.

C’è da chiedersi a quanti attori della crisi mediorientale interessi l’indicibile dolore dei civili. Perché a Madaya ognuno si gioca la propria credibilità: accordo locale siglato sotto l’egida Onu, dovrebbe fare da modello alle altre tregue tra governo e opposizioni nel resto del paese. Ma non pare funzionare, uno stallo che getta ombre sul negoziato che si aprirà il 25 gennaio a Ginevra. Ieri l’inviato Onu per la Siria de Mistura, è volato a Damasco per preparare il dialogo, mentre resta silente il fronte delle opposizioni riunitosi a Riyadh a dicembre ma dai contorni ancora fumosi.

Con l’attenzione concentrata su Iran e Arabia saudita, passa in secondo piano il rapporto del governo Usa che detta i tempi della exit strategy: creazione di un governo di transizione entro aprile, elezioni parlamentari e presidenziali ad agosto, nuova costituzione entro novembre ma uscita di scena del presidente Assad a marzo 2017. Una timeline in linea con le previsioni di Mosca ma difficilmente digeribile per chi chiede l’immediato allontanamento di Assad, ovvero le opposizioni moderate.

Iraq, attacco Is a Bashiqa

Il confronto tra attori regionali prosegue anche in Iraq dove la Turchia approfitta dell’Isis per giustificare la presenza nella base militare di Bashiqa, a 20 km da Mosul. Giovedì lo Stato Islamico ha sferrato un attacco contro truppe turche, peshmerga e unità sunnita irachena Hashd al-Watani addestrata da Ankara. 18 gli islamisti uccisi, nessuna vittima tra i ranghi turchi. Quanto basta al presidente Erdogan per calpestare la richiesta di ritiro da parte di Baghdad: l’attacco dimostra la legittimità della presenza turca in Iraq, ha detto ieri. Mosul rimane centrale: secondo Iraqi News, i miliziani dell’Isis hanno abbandonato la sede in città per timore dei raid e si nascondono ora nelle zone residenziali, ennesima minaccia ai civili intrappolati nella morsa del «califfato».

Nella morsa della crisi Teheran-Riyadh, invece, resta Baghdad che teme un acuirsi dei settarismi interni a causa dello scontro tra asse sunnita e asse sciita. L’escalation provocata dall’Arabia saudita segue alla calcolata formazione della coalizione islamica anti-Isis sponsorizzata dai Saud e di cui fanno parte solo paesi sunniti. Fuori Baghdad e Damasco, i governi che il «califfo» lo combattono sul terreno, con un obiettivo: rafforzare l’asse sunnita a scapito del rivale.

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