Altri sei morti, annegati all’alba di ieri a pochi metri dalla riva, davanti alla Playa di Catania, la spiaggia delle vacanze. Sei bare di metallo, adagiate su quella sabbia che qualche ora dopo sarebbe stata presa d’assalto dai bagnanti. Erano 100 i migranti, siriani ed egiziani, arrivati su un barcone di 15 metri. Tra loro ben 55 minori, 8 dei quali non accompagnati, e un bimbo di 7 mesi, ricoverato in ospedale per una forte disidratazione.

Navigavano da una settimana e gli ultimi 50 metri sono stati fatali: la barca si è incagliata e per evitare di essere sorpresi dalle forze dell’ordine e finire in uno di quei centri che con un lessico improprio si chiamano «d’accoglienza», si sono buttati in acqua. Ma hanno trovato un fondale profondo e chi non sapeva nuotare è andato giù. È già accaduto altre volte, troppe volte. «La situazione che abbiamo trovato era di straordinaria gravità – racconta il presidente della Cri di Catania, Stefano Principato -. La gran parte dei migranti presentava un forte affaticamento. Chi si è buttato in acqua l’ha fatto senza avere la percezione del pericolo».

Cinquanta chilometri più a sud di Catania, a Siracusa, una motovedetta della Guardia costiera, appena un paio d’ore dopo, sbarcava altri 57 siriani: 24 donne, 26 bambini e solo 7 uomini, due dei quali disabili. Quello dei giovani migranti è un fenomeno che cresce ininterrottamente da almeno due anni, quando nella primavera del 2011, nel periodo del goffo governo Berlusconi, diecimila maghrebini arrivarono in poche settimane a Lampedusa. Erano prevalentemente ragazzi, «la generazione perduta», come la chiama il portavoce dell’Unicef Italia, Andrea Iacomini.

È una strana rotta quella seguita in questo periodo dai migranti verso gli approdi della Sicilia orientale. A Siracusa dall’inizio dell’anno si sono verificati 53 sbarchi. La meta storica è Lampedusa e per chi proviene dalla costa libica è anche la più vicina: poco meno di 140 miglia da Tripoli. Se il porto di provenienza fosse lo stesso, arrivare a Catania o a Siracusa raddoppierebbe la distanza. Se le barche salpano da Alessandria d’Egitto, come qualcuno ritiene, la distanza diventa quasi proibitiva: 350 miglia, impercorribili senza strumenti avanzati e barche robuste. Eppure, i migranti già da un pezzo hanno cominciato a evitare la strada breve, Lampedusa, appunto, anche se nell’isola ci sono attualmente oltre 700 persone in una struttura che ha appena 250 posti e che ha bandito i letti a castello, ritenuti «pericolosi». Meglio il pavimento.

Le Pelagie, come ormai hanno capito un po’ tutti, non lasciano scampo ai richiedenti asilo, che non hanno come fuggire e dove nascondersi. Una volta identificati con le impronte digitali nel paese d’arrivo, non possono più lasciare i confini nazionali, come prevede la Convenzione di Dublino. E le persone che si lasciano alle spalle guerre e disperazione, non vogliono stare in Italia, dove non ci sarà la guerra, ma dove si insinua la disperazione del sentirsi rifiutati, dell’essere maltrattati e rinchiusi nei Cara per un tempo indefinito. Qualche settimana fa, a Lampedusa, alcune centinaia di eritrei hanno manifestato pacificamente davanti alla chiesa dell’isola. Dopo parecchie ore si è capita la ragione: non volevano lasciare le loro impronte digitali, avevano paura di finire nelle banche dati dell’Interpol sotto la voce Italia.

Intanto, il ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge chiede aiuto all’Europa e avanza la proposta di rapporti bilaterali con i paesi di provenienza dei flussi migratori. Ma l’Europa è sorda, come lo è l’Italia, tutta presa dalle «manovre per salvare Berlusconi», dice l’esponente di Sel Marco Furfaro, che invoca la cancellazione della famigerata legge Bossi-Fini, già nel mirino dei referendum proposti dai Radicali.

L’Unione europea, con scarso senso delle circostanze, ieri ha guardato ai nostri mari, designando la Sicilia come prima regione italiana a sperimentare le reti a prova di meduse. Un progetto che si chiama Medjellyrisk e che serve, pensate un po’, a proteggere i bagnanti da questi ospiti indesiderati «che hanno – spiega l’Ue – un impatto negativo sul turismo e sul sistema sanitario nazionale». E Lampedusa, ovviamente, fa parte del progetto pilota.