La morte di Zbigniew Brzezinski avviene proprio nei giorni in cui le tensioni sul cosiddetto Russiagate sono al massimo livello. Dov’è il nesso?

«Zbig» è stato un Kissinger in formato minore. Lui democratico, il secondo repubblicano. Quest’ultimo più duttile e machiavellico, il polacco-americano più ideologico. Entrambi visionari eccentrici della geopolitica, animavano nei decenni della guerra fredda il perenne dibattito tra «colombe» e «falchi», tra chi premeva più a favore della distensione e chi più a favore dell’intransigenza nei confronti dell’Urss. Brzezinski, forse anche per le sue origine polacche, era il capofila degli antisovietici. L’emblema dei falchi. Teorizzava – lo ricorda il New York Times – la «strategic deterioration» delle relazioni con Mosca, che andava sempre più messa all’angolo, con la superiorità strategico-nucleare, fino alla sua resa.

La normalizzazione della relazioni diplomatiche con la Cina, che egli perseguì caparbiamente, aveva innanzitutto lo scopo di aumentare l’isolamento dell’Urss, mentre in Afghanistan le truppe sovietiche subivano l’umiliazione della sconfitta e della ritirata a opera dei militanti islamici addestrati e armati dagli americani: l’ambiente ideale per lo sviluppo, poi, del terrorismo che, combinandosi col fanatismo saudita, avrebbe portato la guerra dentro gli stessi Stati Uniti. Le sue connessioni con la rete cattolica d’Oltrecortina avrebbero creato le condizioni favorevoli per l’elezione di un papa che della «lotta al comunismo» avrebbe fatto la cifra del suo pontificato.

Brzezinski è spirato a 89 anni, dopo che, dall’epoca della presidenza Carter, di cui fu consigliere per la sicurezza nazionale, non ebbe più incarichi pubblici continuando però a essere interpellato da tutte le amministrazioni che si sono susseguite. Tranne l’ultima. E la prima che ha voluto esplicitamente capovolgere la dottrina Brzezinski, proponendo relazioni «normali» con la Russia, anche in chiave di riequilibrio nei confronti di quella Cina, che, negli anni, grazie originariamente all’apertura al mondo voluta prima di Kissinger e poi dallo stesso Brzezinski, è andata ben oltre il semplice status di contrappeso all’Urss e poi alla Russia, per diventare essa stessa la seconda potenza del mondo, e in prospettiva la prima.

La dottrina Brzezinski non era osteggiata solo dai fautori della distensione e da chi vedeva rischi enormi in una corsa senza freni alle armi nucleari, ma anche da un vasto mondo imprenditoriale che già lavorava nel mercato sovietico. Si pensi solo agli agricoltori del grano. Figure come il petroliere e imprenditore Armand Hammer, consapevoli delle enormi ricchezze del sottosuolo russo, erano di casa al Cremlino. Di converso, l’apparato militare-industriale americano (ma anche sovietico) aveva tutto da guadagnare dalle tensioni, con la crescita esponenziale degli armamenti, anche nel campo alleato.

Sarebbe interessante indagare sugli aggregati d’interessi che si muovono dietro le colombe e i falchi di oggi. Appare evidente che, non diversamente dal passato, le lobby dei falchi hanno più potere e più leve a disposizione, specie negli apparati (Fbi, Cia, dipartimento di Stato, Pentagono) dove più forte è la presenza della vecchia guardia ancora legata agli interessi della guerra fredda.

Si dimentica facilmente che fu Hillary Clinton a propugnare il riaggiustamento delle relazioni tra Washington e Mosca (reset button). A posteriori è stata considerata una gaffe da parte dell’allora segretaria di Stato. Ma lo fu davvero? O non fu piuttosto un passo troppo audace per mettere alle corde un partito troppo forte, quello trasversale dei falchi? Gli stessi oggi all’opera contro l’amministrazione Trump.