Le primavere arabe sono state raccontate da Tehran come un «risveglio islamico». Ma ora che i Fratelli musulmani egiziani sono stati costretti manu militari a lasciare il potere, la strada per l’Islam politico appare quanto meno in salita. E così quella che per molti egiziani veniva vissuta come un’amicizia contro natura tra l’Iran sciita di Ahmadinejad e l’Egitto sunnita di Morsi si è immediatamente conclusa. Entrambi gli ex presidenti stanno per lasciare il potere: Ahmadinejad è a fine mandato (scade il 3 agosto) e Morsi è agli arresti.

La prima reazione al colpo di stato del 3 luglio scorso del ministero degli Esteri di Tehran è stata di accusa per l’intervento dei militari e di difesa nei confronti dei Fratelli musulmani. Ma l’asse anti-golpe tra Ankara e Tehran si è presto sfaldato con i primi segnali di riconoscimento del nuovo presidente Adli Mansour da parte dell’omologo turco Mohamed Gul e i consueti toni pragmatici delle autorità iraniane (molti ayatollah conservatori hanno criticavano il riavvicinamento con il Cairo, voluto soprattutto dal radicale Ahmadinejad). E così gli iraniani si sono limitati a stigmatizzare il tentativo occidentale di indebolire l’Egitto, rivolgendo lo sguardo verso l’Iraq: un paese ben più strategico per gli interessi di Tehran, siglando un accordo con Baghdad per la fornitura di gas naturale iraniano per le centrali di Al-Baghdad e Al-Mansouriyah. L’intesa per le esportazioni frutterà all’Iran circa 3,7 miliardi di dollari l’anno.
Dal canto loro, le Forze armate egiziane hanno subito lanciato avvertimenti a Tehran di evitare ingerenze negli affari politici interni. Non solo, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sede della televisione iraniana al-Alam al Cairo e ne hanno arrestato il direttore.

E così, in poche settimane è tornato il gelo degli ultimi trent’anni. Nel breve periodo questo potrebbe non essere del tutto negativo per l’Iran. Per esempio in Siria, il nuovo governo egiziano ha ripreso a sostenere il regime di Bashar Al-Assad: la vicinanza con i Fratelli musulmani siriani è stato il punto di maggiore scontro tra Cairo e Tehran lo scorso anno. Ma nel lungo termine l’Iran soffrirà del nuovo isolamento determinato dalla caduta di Morsi, per il suo canale privilegiato con Hamas e le relazioni che aveva saputo costruire con gli Stati uniti. Invece i primi a beneficiarne sono le monarchie del Golfo che temevano uno stabile riavvicinamento tra i due paesi e le implicazioni che questo avrebbe avuto nel corso politico di altri regimi contestati, come in Bahrain. Purtroppo, le immagini del riavvicinamento e degli incontri tra Ahmadinejad e Morsi dell’ultimo anno non si ripeteranno presto.

Era lo scorso febbraio quando il presidente uscente Ahmadinejad aveva partecipato al Summit dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oci) e aveva fatto visita al centro dell’Islam sunnita: la moschea di Al Azhar al Cairo. Da 34 anni un capo di stato iraniano non visitava l’Egitto. Sembrava l’inizio di nuove relazioni per paesi che non hanno reciproche ambasciate soprattutto a causa del Trattato di pace con Israele siglato dal Cairo e osteggiato dal nuovo corso politico dopo la rivoluzione islamica del 1979 a Tehran.

Pochi giorni dopo il suo giuramento, nell’agosto del 2012, anche l’ex presidente Morsi aveva fatto visita a Tehran per il meeting del movimento dei paesi non allineati. Ora si ritorna alla vecchia inimicizia e questo non è detto che sia un bene neppure per l’Egitto.