William Morris fotografato dalla Elliott & Fry, 1877, Londra, William Morris Gallery

Nella sua vita William Morris fu diverse cose: fu pittore e disegnatore, ideò una villa, creò mobili, ceramiche, vetrate, carte da parati e, sempre in vivace polemica con la produzione industriale del suo tempo a causa della quale, come ebbe a scrivere, «le arti minori erano in completo degrado», tessuti e arazzi. Né si limitò a biasimare l’età contemporanea sotto questo aspetto: nelle sue conferenze pubbliche, condannò le diseguaglianze fra le classi e auspicò che si rifondasse la società secondo principi più giusti (ideali che espresse anche in romanzi come News from Nowhere), intervenne sulla questione dei restauri, con l’istituzione della Society for the Protection of Ancient Buildings, e scrisse poesie che stampò da sé, assieme alle opere d’altri scrittori inglesi, nella tipografia da lui fondata a Kelmscott, avendo cura di disegnarne personalmente i caratteri (alcuni dei quali, come il Golden o il Troy, sulla base di scritture gotiche e rinascimentali), scegliere l’inchiostro e la carta.
Le antiche corti italiane avevano un termine per quanti solevano occuparsi di molte, variate cose: dilettante. Ma l’eterogeneità della produzione artistica di Morris non poggiava sugli stessi fondamenti sui quali si basa la leggerezza appassionata dell’amatore; no, egli credeva semmai che l’uomo fosse un’unità spirituale e che questa unità potesse esprimersi nelle varie sfere della creazione artistica, senza per questo deformarsi o dimidiarsi. Lo spirito è un soffio (un divino soffio!): si provi a dividerlo, come cerca di fare la moderna civiltà industriale, si taglierà, appunto, l’aria. Sotto questo aspetto, Morris era un romantico né più né meno di Goethe. E non è un caso che i due fossero accomunati dalla fascinazione per le piante nella cui morfologia l’uno trovava quasi l’emblema dello sviluppo organico d’ogni vivente, mentre l’altro una inesauribile fonte di spunti decorativi.
Questo carattere unitario della multiforme attività di Morris, se è un fatto assodato dalla critica, risalta anche agli occhi del lettore comune, non appena gli sia dato sfogliarne una documentazione quasi integrale, distinta in vari capitoli (le vetrate, la pittura, i mobili, il vasellame etc…) come questa riunita da Anna Mason nel volume William Morris, doviziosamente illustrato per la Thames & Hudson e proposto in Italia da Einaudi «Grandi Opere» (pp. 432, 660 illustrazioni, e 80,00).
Sembra anzi, a leggere i numerosi saggi raccolti nel libro, che nella personalità stessa dell’artista vi fosse qualcosa che la faceva somigliare a quei medesimi fioriti racemi che si vedono tanto spesso riprodotti sulle sue stoffe, i quali vivono, si sa, fintantoché non li si recida dal ceppo, allora subito insteriliscono e, perso ogni vivo colore, deperiscono in sterili fascine. Omogeneità dell’ispirazione la quale non aspettava altro che lo stimolo esterno per essere sollecitata, come accadde quando Morris si trovò nella necessità di arredare le stanze che condivideva con l’amico Burne-Jones a Red Lion Square. Fu allora che concepì, sull’esempio di quanto aveva visto nelle abbazie medievali e nelle cattedrali, i suoi primi mobili, che fu poi Rossetti a dipingere. Codesti arredi dovevano certo discendere da quelli concepiti da architetti neogotici come George Edmund Street, nel cui studio Morris conobbe Burne-Jones, ma, a ben guardarli, spiccavano dagli altri per il loro aspetto più insolito e ricercato, complicati com’erano di suggestioni letterarie (la due sedie, la Glorious Guendolen’s Golden Hair e la The Arming of Knight, avevano uno schienale alto in cuoio decorato con scene ricavate da rielaborazioni poetiche di soggetti medievali dello stesso Morris) e non mancarono, per la loro stravaganza, d’attirare l’ironia di qualche contemporaneo.
L’interesse di Morris per le arti applicate, testimoniato dalla monumentale vastità delle sezioni di questo catalogo, era qualcosa che poggiava sul gusto del tempo. Al pari di Ruskin, Morris credeva che la grandezza raggiunta dall’arte in alcune epoche risiedesse nell’altezza spirituale della quale era stata il riflesso; e, siccome lo spirito non disdegna albergare nelle piccole cose, le vetrate, le ceramiche e la tappezzeria contribuivano, non meno della pittura e della nobiltà del fabbricato, alla bellezza degli edifici: ogni aspetto doveva formare «un insieme dotato di grande armonia».
Fu con simili auspici che La Morris, Marshall, Faulkner & Co venne costituita nel 1861, quale associazione d’artisti accomunati dalla stessa complessione d’animo, per così dire, e fu sempre sulla base di questi medesimi principi che vide luce la prima residenza della famiglia Morris, la Red House, così chiamata dal colore di suoi mattoni. Casa oltremodo bizzarra, questa che vediamo documentata nel libro, con la sua pletora di guglie, abbaini, torrette e finestrelle – ve ne erano d’ogni foggia e misura, di rotonde, quadrate, rettangolari – che dovevano far da sfondo al matrimonio tra Morris e Jane Burden, ripetutamente allegorizzato nei molti affreschi, simili a trasfigurazioni araldiche di amori borghesi in teorie di cavalieri genuflessi e di dame allampanate in atto di riceverne il devoto omaggio. Come le parti dovevano armonizzarsi nell’edificio, così questo doveva integrarsi col giardino, quasi che l’intera villa fosse chiamata a farsi specchio di quell’ideale di un umanesimo pre-industriale vagheggiato dal proprietario: «La casa, il giardino e gli interni –nota appunto Fiona MacCarty – furono concepiti come un’unica entità, una serie di spazi interconnessi in cui i confini tra interno ed esterno erano deliberatamente sfumati».
Anche la successiva dimora di Morris, Kelmscott Manor, fu ispirata da una medesima concezione d’armoniosa corrispondenza fra individuo, natura e società, al punto da apparire in una forma idealizzata nel romanzo News from Nowhere. Morris mirava alla semplicità rustica dell’antica Inghilterra, molto simile a quella alla quale guardò, per il popolo tedesco, il Wagner dei Maestri cantori di Norimberga.
Eppure, a dispetto delle intenzioni, i motivi stampati sulle carte e intessuti sulle stoffe dalla ditta di Morris, con quegli uccelletti come irretiti nel soffocante groviglio di fogliame, non fanno tanto pensare alla limpida pace agreste d’una lirica di Wordsworth, quanto piuttosto ai giardini delle Isole Borromee descritti da Maurice Barrès sui cui rami le colombe si poggiano pesantemente come «ebbre dei profumi addensati su delle terrazze troppo strette». Per la figlia May «il carattere di questo delicato design» era «tutto Kelmscott: la peonia e il tulipano selvatico sono due delle fioriture primaverili più ricche del giardino di Manor», ma ai nostri occhi i fiori di Morris, nonostante la minuzia dell’esecuzione, sembrano provenire dal verziere di Polifilo, assai più che da un giardino del Gloucestershire. «Nella pittura preraffaellita – notò Maro Praz – cercava sfogo quella vita passionale che il costume vittoriano faceva di tutto per ignorare o reprimere»; per questo nella loro pittura invano si cercherebbe il sereno godimento della vita che spira da certa arte di corte del XIV secolo, da essi pur presa tanto spesso a modello.
Non fu questa la sola contraddizione di Morris. La più evidente la espresse Honour: «sebbene M. credesse col fervore, nel rifarsi al Medio Evo, che ogni arte dovesse essere fatta dal popolo per il popolo, non riuscì mai a risolvere il problema del costo della produzione manuale, assai superiore a quella meccanizzata». Furono i suoi successori che, applicando molte delle sue idee ai processi industriali, resero accessibili la Bellezza a quel popolo sul quale Morris aveva fondato il proprio ideale estetico.