Morire da “clandestini”, secondo l’odioso gergo pompato dalla destra e fatto proprio con disinvoltura da Marco Travaglio, vuol dire anche morire in macchina, congelati, senza che nessuno se ne accorga. Clandestinamente. Man Addiah, nato a Monrovia, Liberia, 31 anni fa, è crepato così. Nel menefreghismo delle istituzioni, nel silenzio di tutti, o di quasi tutti, nella sciatteria di un “sistema” che dilapida un milione di euro per costruire un’ignobile tendopoli per poi sbatterci dentro un senza casa, bisognoso di un tetto. E allo stremo per la fame e per il freddo.

Addiah era arrivato domenica nella piana di Gioia Tauro per trovare un impiego come lavoratore stagionale addetto alla raccolta di agrumi. L’uomo non aveva trovato posto nella tendopoli. Gli avevano detto: «Qui non si entra», e lui si era adattato a dormire in un’auto parcheggiata di fronte alla baraccopoli. Si era già sentito male nella notte ed era stato visitato dai sanitari del 118 che gli avevano praticato un puntura. Senza però ricoverarlo nell’ospedale gioiese.

Né un letto per dormire, né un letto per il ricovero: è questa l’accoglienza made in Italy. E così alle prime luci dell’alba il migrante ha avuto un nuovo malore, è stato portato dai suoi amici in auto in ospedale. Dove però è giunto cadavere. La procura di Palmi ha aperto un’inchiesta per accertare eventuali responsabilità. I magistrati hanno disposto l’autopsia per verificare le cause della morte e se ci siano state responsabilità da parte dei sanitari del 118. Questo perché il personale sarebbe intervenuto, stando al racconto degli amici di Addiah, soltanto un’ora dopo la telefonata fatta alla centrale operativa del servizio. I sanitari sarebbero andati via assicurando che sarebbero tornati dopo un’ora per accertarsi delle condizioni del migrante. Secondo intervento che, invece, non c’è mai stato. «Morire per il freddo o per le dure condizioni di lavoro è davvero inaccettabile in una società civile. Chiederemo al prefetto di Reggio, assieme alle associazioni di volontariato, un urgente incontro per denunciare lo stato in cui vivono i lavoratori immigrati sia dentro che fuori la tendopoli di san Ferdinando. Le istituzioni devono dare risposte immediate e concrete per evitare il ripetersi di tragedie come quella che ha interessato il giovane liberiano», è il commento laconico della Cgil.

Un film già visto a queste latitudini. Le tragedie dell’immigrazione, il rimpallo di responsabilità. E infine il ritorno alla mesta routine. Di migranti portati in mezzo alle strade, scelti come bestie, spremuti come le arance che faticosamente raccolgono. E poi abbandonati nei gironi danteschi delle tendopoli, delle baracche di cartone, nelle macchine abbandonate. Con il gigantesco problema dell’assistenza sanitaria. Carente e piena di falle. Da quest’anno Emergency, come già raccontato da questo giornale, ha aperto un ambulatorio a Polistena nei locali confiscati alle ’ndrine ed assegnati a Libera, aumentando i livelli di assistenza. Ma spesso non basta. Perché qui manca di tutto. «C’è bisogno di coperte ma anche di cibo e di vestiti». È l’appello che rivolge don Roberto Meduri, il giovane parroco di Rosarno che per migliorare l’integrazione dei migranti si è inventato la meravigliosa esperienza del Koa Bosco, la squadra di calcio iscritta al campionato di Terza categoria, composta esclusivamente dagli africani della tendopoli. Che per ricordare il loro fratello giocheranno oggi, in occasione della partita casalinga, in segno di lutto. Una fascia nera al braccio. Mentre una maschera di vergogna copre il capo dei nostri governanti.