Forse il libro più famoso di Hunter S. Thompson resta Paura e disgusto a Las Vegas, cronaca di una super-strippante «cavalcata selvaggia nel cuore del sogno Americano», avvenuta nel 1971, ed eseguita con la stessa mistica motociclistica che ricordiamo in Easy Rider. Pubblicato in italiano da Bompiani vent’anni dopo la sua uscita negli Stati Uniti, e rilanciato nel 1998 da un film interpretato da Johnny Depp, con questo capolavoro anti-conformista Thompson – morto suicida in circostanze misteriose nel 2004 a sessantadue anni – si candidava a diventare scrittore «da leggenda» per pochi: uno dei più singolari protagonisti della controcultura sessantottina americana.
Sodale della rivista underground Rolling Stone, aveva il ruolo di delegato giornalista «gonzo» per gli Affari nazionali. Seguì, in questa veste, diverse campagne presidenziali, inclusa quella che finì a favore di Nixon, da lui chiamato «mostro americano», restituendo con le sue scritture folli e irriverenti reportage di fuoco da contro-New-Journalism, ribattezzato Gonzo-Journalism: da uno dei suoi numerosi pseudonimi, «Gonzo», appunto.

Nella rappresentazione del declino fattuale (talora misto a fiction) del suo paese, egli è dunque da classificare nello stesso gruppo degli eleganti Tom Wolfe e Joan Didion ma con un taglio gergale e narrativo molto più lacerante e motteggiante, anche perché solitamente espresso sotto l’effetto di sostanze psicotrope. Nel tempo Thompson è diventato un personaggio di «culto», e così pure alcuni suoi libri.
Uno di questi, il brevissimo Screwjack (ovvero «martinetto a vite») viene ripresentato da Bompiani con la deliziosa copertina rosa dell’originale (traduzione di Marco Rossari, pp. 64, euro 10,00). Pubblicato nel 1991 in copie da collezione, raccoglie tre racconti «gonzi» e allucinati su eventi personali (specchio della nazione di allora) tutti facenti capo alla storia narrata in Paura e disgusto: senza quel background, forse, il plot delle tre aggiunte a quella vicenda non è facile da seguire; ma, per il resto, ovvero per amenità, effervescenza di linguaggio, mordacità satirica e macchiettismo, i tre pezzi di Screwjack si fanno leggere con godibilità.

Li precede una Introduzione consistente consistente in una lettera a «Maurice» (Maurice Neville, il suo editore), in cui Hunter raccomanda una studiata architettura del libro che, nella scansione dei tre pezzi, vorrebbe vedere realizzato come un crescendo in stile Bolero di Ravel: «sempre più veloce e selvaggio», sì da trascinare «inesorabilmente il lettore in cima a una collina» per poi scaraventarlo «dal dirupo».
I tre racconti («Mescalito», «Morte di un poeta» e «Screwjack»), vorticanti attorno al 1970, si fanno leggere senza il peso del mezzo secolo di distanza. Per chi è vissuto in California in quegli anni, o ha visitato il Nevada, la Death Valley, e l’oltreconfine messicano di Ensenada o di Tijuana (fonti di spaccio), questi racconti conservano ancora fresca la verità pittorica e antropologica di un’atmosfera irripetibile. E chi non c’era, in quei posti o in quegli anni, può viverne l’epica in presa diretta attraverso lo stream of consciousness giornalistico di Thompson/Gonzo.

Ebbe un bel coraggio (e altrettanta spudoratezza) Thompson nel pubblicare l’ultimo racconto, «Screwjack», impudente «lettera d’amore» sul rapporto carnale con Mr. Screwjack, un gatto nero à la Edgar Alan Poe, del quale il mittente, Raul Duke (un altro pseudonimo), è innamorato, non senza un’ombra di puritano senso del peccato: «Perdona, Signore, il mio amore per quella bestiola, e il mio volerlo così tanto dentro di me che un giorno lo sentirò trotterellare sulla morbida carne del mio cuore … e il mio desiderio di sdraiarmi accanto a lui e dormire come due bambini con i nostri corpi avvinti, facendo lo stesso sogno selvaggio. … Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Non possono certo squadrarmi con quegli occhi cisposi e inquisitori per dire che non potevo amare un enorme micione nero. Lascia perdere, Signore. Me la cavo da solo. … E lasciaci avere un figlio».
A fine lettura, costernato, l’alter ego di Duke (cioè Hunter) si ritrova con quel gatto nero in grembo che prende a coccolare fino a quando la bestiolina non lo morde, intimandogli «Mai più» (il Nevermore del Corvo di Poe). Il black cat finisce così strangolato e strabuzzato per terra. Hunter è ora un giornalista assassino «gonzo» à la Poe.