Sul Lungotevere della Vittoria passano poche macchine, non c’è mai il traffico che si può trovare davanti al Ministero della Marina o verso Piazza del Popolo, Piazza Navona o ancora più giù, dove il Lungotevere raggiunge Porta Portese. Il quartiere della Vittoria è spesso confuso con il quartiere Prati rispetto al quale viene considerato una sorta di appendice più elegante e, appunto, meno trafficata. E invece, fra il Convitto Nazionale, il Palazzo della RAI e, sul confine, la zona del Tribunale Civile, ha una sua identità precisa. Luogo per lo più ormai di studi legali invece che di abitazioni private, ha strade larghe e tutto sommato ben tenute, che si svuotano quasi di incanto durante il fine settimana, nelle quali le eleganti palazzine di inizio Novecento convivono con palazzi di ispirazione razionalista degli anni trenta.
Proprio in uno di questi, al sesto piano, con le finestre che affacciano sul Tevere da un lato e sugli alberi, cresciuti a dismisura e disordinatamente, di Piazza Del Fante dall’altro, è la casa dove visse Alberto Moravia gli ultimi trent’anni della sua vita. L’esterno, grigio chiaro, su cui risaltano fasce di colore rosso a separare i piani, curva sulla piazza, dando così un’inattesa impressione di movimento che contrasta, una volta entrati, con il bellissimo vano delle scale superbamente squadrato.
Poco distante, verso Piazza Mazzini, andò ad abitare Francesco Merighi, il protagonista de L’attenzione (1965), il primo romanzo scritto da Moravia nella casa di Lungotevere della Vittoria – l’ultimo sarà La donna leopardo, uscito postumo – in cui si era trasferito dopo aver lasciato la casa di via dell’Oca in seguito alla separazione con Elsa Morante.
Nell’ingresso dell’appartamento, sopra a una lampada a spirale anni settanta di Ingo Maurer, spicca un bellissimo quadro di Schifano del 1965-’66, Finestra con pianta. Di grandi dimensioni (200X220), occupa l’intera parete davanti la porta di ingresso e, con i suoi colori tenui e acidi allo stesso tempo, fra l’azzurro e il grigio, appare una delle opere più classiche e migliori di questo pittore a cui Moravia fu legato da grande amicizia.
In un volume di pochi anni fa, Non so perché non ho fatto il pittore. Scritti d’arte 1934-1990, a cura di Alessandra Grandelis, con un’interessante ricerca iconografica a cura di Nour Melehi (recensito su «Alias» del 17/12/’17 da Raffaele Manica), Moravia approfondisce il suo rapporto con Schifano; il legame che li ha fortemente uniti emerge, oltre che in una lettera del ’75 pubblicata dallo scrittore su «L’Espresso», in una lunga intervista nella quale le personalità dei due sembrano incrociarsi nel cammino di una ricerca quasi comune.
Nell’ingresso di casa non è solo il quadro di Schifano a risaltare, ma anche un piccolo e prezioso dipinto di Tano Festa (L’Aurora) del 1966 e una bellissima natura morta di Corrado Cagli del 1950-’51, dedicata allo scrittore e probabilmente, come testimoniato da quanto riportato sul dipinto in basso a destra, donatagli per il capodanno del 1957.
Già da subito si intuisce quindi che Moravia, come rilevò Manica, «ha avuto per tutta la vita una passione per l’arte – e segnatamente per la pittura – forse ancora più intensa rispetto a quella per la letteratura (siglata da una certa “professionalità” e dalla dimestichezza con i ferri del mestiere) e di sicuro rispetto a quella per il cinema, di cui pure fu critico con continuità» e che, per lo più si è interessato a quei pittori «suoi contemporanei e compagni di viaggio, molto spesso di area romana».
Nella casa non vi è traccia infatti di pittori del passato o di alcun dipinto antico, anche fosse soltanto un ricordo di famiglia. Ordinata ed essenziale, senza alcuna concessione al superfluo sembra essere stata concepita dallo scrittore, inizialmente insieme a Dacia Maraini, come un punto fermo, «un approdo sicuro» – mi fanno notare Nour e Ilaria Campodonico del Fondo Moravia, che mi accompagnano nella visita – fra gli incessanti viaggi della coppia in giro per il mondo.
Alcune maschere orientali e africane sono appese sulle pareti bianche dell’appartamento quasi in contrasto con i numerosi ritratti dello scrittore.
Nel salone in fondo al lungo corridoio ecco il famoso Ritratto con il maglione rosso di Guttuso, 1982: lo scrittore, già anziano, è seduto su una poltrona con il volto corrucciato appoggiato a una mano mentre l’altra, ossuta e quasi sproporzionata come quella di un vecchio, è in primo piano, abbandonata sulla gamba destra.
Fra i compagni di strada di Moravia è da ricordare in particolare Toti Scialoja con cui, oltre alle numerose amicizie romane, condivise diverse estati nella casa di Anacapri dove, insieme a Elsa Morante, si rifugiava spesso a partire dalla fine degli anni trenta. Sulla parete del salotto, accanto al ritratto di Guttuso, due tele di Scialoja degli anni cinquanta, Fabbriche a Port de Neully e una natura morta, entrambe sui toni profondi del blu, appena ravvivate dal rosso cupo di un palazzo o dal bianco di una bottiglia, testimoniano il legame con il pittore romano negli anni appena precedenti al suo definitivo approdo all’arte astratta nel 1955.
Lo studio dello scrittore, con la vista sul Tevere e, sulla sponda opposta, sulle case ex popolari di Villa Riccio al quartiere Flaminio, sente fortemente la presenza della scrivania. È un tavolo da lavoro di estrema semplicità, opera di Sebastian Schadhauser. Secondo lo scrittore i mobili dell’amico tedesco, singolare figura di artista artigiano, caratterizzati dalla totale assenza di qualsiasi elemento di ferro, stimolavano «la riflessione in più direzioni», riportando indietro a «un mondo arciprimitivo nel quale trionfa quello che Baudelaire in una sua poesia chiama “végétal irrégulier”». La scrivania venne realizzata nel 1979 tenendo conto delle esigenze fisiche di Moravia e, per consentirgli la maggiore comodità possibile, Schadhauser ideò una struttura asimmetrica che permettesse un facile appoggio della gamba destra che tanto da ragazzo aveva tormentato lo scrittore.
Accanto alla scrivania si trovano poi un delizioso ritratto di Moravia di Mario Ceroli del 1968 nel classico legno di pino, marchio di fabbrica dell’artista, e una tempera su cartoncino del 1932 di Enrico Paulucci in cui lo scrittore, giovanissimo, è dipinto curvo sulla macchina da scrivere.
Forse il ritratto più interessante di Moravia da giovane è però quello nella stanza attigua allo studio. Un olio su cartone di modeste dimensioni di Carlo Levi del 1930-’31, gli anni del soggiorno londinese durante i quali i due si legarono profondamente, in cui lo scrittore, come dallo stesso ricordato, viene ritratto con tecnica «modiglianesca», frontalmente, con il volto allungato e l’espressione cupa e assorta.
A trent’anni dalla morte di Moravia, la cui scrittura, come sottolinea Lorenzo Giordani, ha «una decisa connotazione visiva, materica, concreta, è insomma una scrittura dell’occhio», vale la pena visitarne la casa per comprendere qualcosa di più di uno scrittore che, pur essendo considerato un maestro della letteratura novecentesca, negli ultimi tempi è stato ingiustamente ricordato – e letto – meno di quanto si sarebbe dovuto.