Uno sguardo al cartellone del Montreux Jazz Festival basta subito per capire quanto una tale denominazione sia ormai restrittiva. La rassegna che si tiene dal 1967 nella cittadina svizzera è divenuta infatti un punto di riferimento per tanti altri stili, a cominciare dal rock, con artisti strepitosi: Carlos Santana, il quartetto dei giovani Songhoy Blues che partiti da Timbuktu diffondono nel mondo il loro autentico rock maliano. E ancora Caetano Veloso e Gilberto Gil, illustri agitatori del tropicalismo brasileiro, Caro Emerald che porta sulla scena dell’Auditorium Stravinski il «Beyond The Memory Tour», un omaggio al grande chitarrista flamenco Paco De Lucia.
Il Festival – giunto alla sua 49° edizione, si chiude oggi – orfano dell’ideatore artistico Claude Nobs, scomparso nel 2013 ha però allargato i propri orizzonti musicali sin dagli anni ’70 includendo blues, soul, rock, e molti altri generi, come l’elettrohiphop dei sudafricani Die Antwoord o l’alternative dance dei portoghesi Buraka Som Sistema fino al reggae.
Questa differenziazione di stili è stata fortemente voluta e resa possibile con l’allestimento di diversi palchi in differenti location, per far fronte ai gusti musicali e alle tasche (anch’esse diversificate) del pubblico – si pensi che il costo del biglietto del concerto dei Santana e Songhoy Blues era dai 125 ai 325 franchi svizzeri, ovvero oltre 300 euro), che affolla le tre sale in cui si svolge il festival, l’Auditorium Stravinski, il Montreux Jazz Club, e il Montreux Jazz Lab, intitolato fino all’anno scorso a Miles Davis.
Il Lab ha ospitato tre nomi di rilievo della musica reggae internazionale a cominciare dalla nuova star, protagonista del cosiddetto reggae revival giamaicano, Protoje con la sua band The InDigg Nation; e poi i Groundation (Usa), e Dub Inc (Francia) mentre nell’Auditorium Stravinski era di scena, nello stesso momento Lionel Richie.

 

 

Nel Lab è anche dove si sono viste le facce più giovani in visibilio quando si sono materializzati i loro idoli, specialmente i Dub Inc. Tre set di un’ora per ciascuna band. Apre la voce granulosa di Protoje, capace di affondare nei toni più gravi come di svettare nelle note più acute del pentagramma, e di sfoggiare un incredibile falsetto, accompagnato dal sound asciutto e compatto della band. Con gli InDigg Nation che quasi sembravano essere lì a ricordarci che il reggae l’hanno inventato loro.
Lui, il ragazzo trentaquatrenne originario di Santa Cruz, figlio della cantante Lorna Bennett, ha mostrato un’energia e una vitalità sorprendenti, interagendo con il pubblico, saltellando qua e là come un folletto un po’ simpatico e un po’ sbruffone per uno show di ottimo livello, una carrellata sospesa tra vecchie e nuove hit pescate dai suoi tre album. L’ultimo, in particolare, Ancient Future, uscito lo scorso marzo, suona come uno ossimoro per dirci che il reggae come tutta la musica è sempre in bilico tra passato e presente, tradizione e innovazione, e raccoglie una miriade di influenze senza preoccuparsi dei confini e dei paletti.
Come dimostra anche la musica dei Groundation, band californiana composta da Harrison Stafford (voce e chitarre), Marcus Urani (tastiere), e Ryan Newman (basso) con evidenti influenze jazz con cui i musicisti sembrano trovarsi perfettamente a loro agio; sfoggiano un nutrito organico di fiati (ad esempio in Freedom) ma non mancano sferzate di chitarra, groove di basso e batteria, tamburi e percussioni (We free again, Who is gonna) che dimostrano anche familiarità con le sonorità più roots.
A chiudere, i francesi Dub Inc, accolti da un pubblico scalpitante. La band dal canto suo non si è risparmiata irrompendo in scena con l’ormai classico Tout ce qu’il veulent e l’intro tratta dalla colonna sonora de Il grande dittatore di Chaplin; un brano che narra i sentimenti di chi non ama sentirsi troppo straniero in Francia, né troppo francese all’estero.

 

 

La band, originaria di Saint Etienne, può essere considerata come un pilastro del reggae transalpino, e ha dimostrato grandi capacità nel suonare e comporre un reggae di spessore, in grado di raccogliere le influenze provenienti dalle diverse origini dei componenti del gruppo condensate con musicalità e senso del ritmo nel sontuoso intreccio tra le voci dei due cantanti: Bouchkour e Komlan, di origine algerina il primo, africana il secondo. Gran finale con Sounds good, un brano tratto dall’ultimo album, Paradise