«Voleva il successo, ma per disprezzare il successo e il pubblico, questo era il suo sogno: “schiacciare” il pubblico». Così si legge nell’ultimo, ponderoso lavoro di Giuseppe Montesano Baudelaire è vivo I Fiori del male tradotti e raccontati che la Giunti manda in libreria («Scrittori», pp. 1294, € 28,00) a duecento anni dalla nascita del grande autore francese, in cui si è incarnata l’idea stessa di modernità in poesia. Si tratta di un libro atipico, sia nella struttura sia nelle interpretazioni dell’opera baudelairiana, spesso in aperta contrapposizione rispetto alle acquisizioni critiche più scontate e accademiche (vedi le polemiche prese di posizione nei confronti di Claude Pichois, biografo e curatore delle Œuvres complètes per La Pléiade, concernenti i plurimi richiami alla compagna Jeanne Duval nell’economia di alcuni singoli tasselli delle Fleurs). Montesano si è misurato a più riprese con la figura di Baudelaire, curando insieme a Raboni il «Meridiano» delle Opere nel 1996 (restyling del precedente volume Poesie e prose, curato dal solo Raboni nel 1973) e licenziando il saggio Il ribelle in guanti rosa, edito sempre da Mondadori nel 2007, oltre a svariati contributi e traduzioni, spesso trasgressive sin dal titolo, come, ad esempio, La Capitale delle Scimmie al posto di Povero Belgio!, che raccoglieva in un «Oscar» del 2002 i giudizi frammentari e taglienti a proposito dei belgi ricorrendo a un «titolo che Baudelaire aveva annotato insieme ad altri» (questa la resa raboniana di un distico feroce di Amœnitates Belgicæ: «Si crede il Belgio, pieno di vantaggi; / dorme. Non lo svegliare, tu che viaggi»). D’altronde non si dimentichi anche il precedente volume intitolato Lettori selvaggi, edito da Giunti nel 2016, in cui si perviene a una concezione altrettanto totalizzante di letteratura, che da Gilgamesh approda a Bolaño, precisando, come recita il sottotitolo, che «la vita vera è altrove».
Questo libro d’altronde non è un saggio, non è una traduzione, non è una biografia altalenante «tra esaltazione e depressione», ma tutte queste cose insieme, costituendo una sorta di unicum che tende all’accumulo più che alla selezione, offrendo al lettore uno strumento atto a rimarcare le analogie ricorrenti tra i singoli brani delle Fleurs nonché con altri lavori capitali come Lo Spleen di Parigi. Ed è significativo che la celebre raccolta poetica sia riportata in ordine progressivo mentre le prose dello Spleen di Parigi compaiano laddove risulta evidente il collegamento con il testo delle Fleurs, perdendo ogni attinenza con la numerazione in divenire: ad esempio la poesia V dei Fiori del male, il cui capoverso è «Amo il ricordo di quelle epoche nude», sarà seguita dal commento di Montesano e dalle prose XV, XIX, XL dello Spleen di Parigi, intitolate Il Dolce, Il Giocattolo del povero e Lo Specchio, in virtù del capovolgimento del concetto di «buon selvaggio» coniato da Rousseau a favore di quello di «uomo malvagio secondo Sade (…) attraverso un gioco di parole (“siamo tutti nati marquis par le mal” che si può interpretare sia come marchiati dal male sia come marchesi nel male)». Non infrequenti in Baudelaire tali calembours, tali doppisensi, che daranno l’abbrivio alle sperimentazioni linguistiche dei simbolisti, Mallarmé in primis, nonché a quell’atrabiliare bric-à-brac verbale presente negli Amours jaunes di Corbière che P. O. Walzer farà derivare dall’espressione «rire jaune», corrispondente al nostro «ridere per non piangere».
Baudelaire è vivo ha una struttura a soffietto, a fisarmonica, che si dilata e contrae a seconda delle occasioni, offrendo l’opportunità di approfondire certe correspondances di non immediata fruizione ma, al contempo, depauperando il piacere costituito dalla lettura progressiva dello Spleen di Parigi, i cui singoli testi si propagano anche nella sezione accogliente i Nuovi Fiori del male e le poesie disperse. In quest’ottica il lavoro di Montesano va consultato, centellinato, soprattutto in funzione di una lettura intertestuale e dei collegamenti esistenti fra macrotesto e microtesto. Ogni brano tradotto rinvia infatti a un altro brano, creando una serie di collegamenti che si diramano alla stregua di un’immensa ragnatela: ad esempio Mœsta et errabunda rimanda a Il Balcone e all’Invito al viaggio, Lo Spettro a Il Vampiro, lirica a proposito della quale si sostiene che vada «in scena uno sdoppiamento, in cui farsi vampirizzare sarebbe un autovampirismo, come quello che Furio Jesi lesse in Hoffmann».
Viene sapientemente messa in luce la dicotomia tra Eros e Sexus presente nella poetica baudelairiana, in quanto «bisogna considerare il libro intero con ogni poesia e ogni frase come un insieme dove regna l’ossimoro permanente. La contraddittorietà radicale della poesia-pensiero baudelairiano (…) è un’indicazione per leggere I Fiori del male come insieme dialettico dove la contraddizione, che in Baudelaire è vicina ma non uguale alla coincidentia oppositorum di Cusano e alla guerra perpetua dei contrari di Eraclito, non è mai superata». Baudelaire paragonava l’atto sessuale a un’operazione chirurgica, memore forse di un’osservazione di Leonardo che lo riteneva l’azione antiestetica par excellence.
Si opta per una traduzione piana e lineare comprendente il testo a fronte, tesa al rispetto della lezione originale, pressoché opposta a quella di Bufalino, infarcita di licenze baroccheggianti, ma priva, al contempo, del tono monocorde impresso da De Nardis. «La traduzione è sempre una battaglia con morti e feriti, ma può essere anche una grande chance per il fatto che potrebbe diventare, se non indulge al poeticismo che è sempre d’accatto, una lente che ingrandisce i dettagli e li fa vedere meglio» osserva Montesano. Non mancano esiti significativi, come la versione della seguente terzina tratta dal XXXII brano delle Fleurs, sonetto il cui capoverso è «Una notte che ero di fianco a una spaventosa ebrea»: «Perché avrei con fervore baciato il tuo nobile corpo, / e dai tuoi piedi freschi fino alle tue nere trecce / avrei srotolato il tesoro delle profonde carezze» (Raboni, rinunciando alla rima baciata in assonanza formata da «trecce» e «carezze», rende i versi in tal modo: «Ah sì, con fervore il tuo nobile corpo avrei baciato, / e dai piedi fragranti fino alle trecce nere / avrei sparso un tesoro di carezze profonde»).
Se certe interpretazioni di Montesano risultano condivisibili, troppo insistita appare la sollecitazione ideologica che si manifesterebbe in forme variamente decrittabili (una nemesi?) dopo la disillusione degli ideali del 1848. Non aveva forse scritto in Razzi che «I popoli adorano l’autorità»? Basti pensare a ciò che lo stesso Baudelaire sostiene in Il mio cuore messo a nudo, riferendosi al fatto di aver arringato la folla affinché giustiziasse il patrigno, il generale Aupick: «Mia ebbrezza nel 1848. Di che natura era questa ebbrezza? Gusto della vendetta. Piacere naturale della demolizione». Non è un caso che Giovanni Macchia designasse il poeta come «antiprogressista fino all’insistenza maniaca e all’insolenza».
Numerosi i rinvii all’acribia esegetica di Walter Benjamin e al recupero del concetto di flânerie, cadenzati lungo l’asse dei singoli commenti, e ad altri autori che hanno influenzato in varia misura Baudelaire, come si evince da questo passaggio tratto dalla chiosa allo Straniero (I) dello Spleen di Parigi: «Il grande tema dell’Unità mistica di tutte le cose dispersa nella molteplicità, che il giovane Baudelaire aveva ricavato da Swedenborg come da Fourier, dagli Illuminati come dai socialisti Esquiros o Constant, dal plotinismo volgarizzato come da Balzac, e poi da quasi qualsiasi lettura compresa quella di Proudhon, tornava nel tardo Baudelaire nel segno della rottura inesplicabile». Molto interessante la nota finale in cui Montesano ripercorre le tappe del suo trasporto per l’opera baudelairiana, modulate intorno a una serie infinita di studi e letture, quasi nel tentativo di «carpire» il segreto di quell’opus magnum che si riversa in una maniacale tendenza a una regolarità compositiva, puntualmente disattesa (si vedano al riguardo gli spunti sulla disciplina in Razzi e Il mio cuore messo a nudo laddove la figura del poeta è equiparata a quella di uno stilita o un prete). In uno di questi frammenti si legge: «Ci sono epidermidi da crostaceo verso le quali il disprezzo non è più una vendetta». Non sembra l’ennesima, disarmante confessione di un autore che aspira solo a immolarsi?