«È stato pazzesco, non ce la facevano più» ha detto il ranger Greg Elliot alzando finalmente il cartello permanent closure. I turisti erano ormai un’orda, ogni mattina circa 2mila persone si presentavano al sentiero per la vetta di Uluru, il monolite nel cuore del deserto australiano che l’Onu ha inserito nel patrimonio dell’umanità.

Da oggi, 26 ottobre, l’ascesa a Uluru sarà vietata e la catena per la vetta installata negli anni Sessanta subito rimossa, per rispettare gli aborigeni Ananga, proprietari tradizionali dal 1985. Da trent’anni gli Ananga cercano di frenare le ascensioni con spiegazioni sul loro sistema etico-religioso, la Tjukurpa, che limita l’ascesa ai maschi nel corso di rare cerimonie, e civili cartelli multilingue. Decisa lo scorso anno, la chiusura ha scatenato polemiche feroci, in testa i sovranisti aussie per cui il libero transito non si ferma per un pugno di nativi.

L’orda ha invaso ogni angolo, dalle prestigiose camere del Latitude 131° a 2.000 euro a notte con vini francesi e piscina vista masso, ai posti-tenda senza elettricità da 25 euro. Bivacchi abusivi sono ovunque, l’intero parco è una toilette a cielo aperto, i ranger dell’Uluru-Kata Tjuta National Park hanno abbandonato ogni altro compito e soccorrono turisti che si perdono, precipitano, si ustionano ai barbecues – 37 morti dagli anni Cinquanta.

Gli ultimi hanno rischiato la beffa, ammucchiati a centinaia e tormentati da milioni di mosche (caratteristica del luogo poco pubblicizzata) mentre forti venti impedivano l’ascensione, ma poi i venti si sono placati. E ormai la roccia liscia, i 40 gradi, la città più vicina a cinque ore di auto, il piccolo aeroporto che serve i turisti facoltosi più che le eliambulanze sono problemi di ieri.