Mont’e Prama è la Pompei della Sardegna, si potrebbe dire facendo il verso alla cattiva abitudine dei media di paragonare siti archeologici «minori» ma stupefacenti alla celeberrima città vesuviana. A ben guardare, però, il sito di Mont’e Prama – ubicato nella penisola del Sinis, in provincia di Oristano – qualcosa in comune con Pompei la ha davvero. Il parallelo non risiede nella grandiosità delle rovine (risalenti, nel caso del sito sardo, all’Età del Ferro e, per ora, poco monumentali) ma piuttosto nella spettacolarizzazione delle scoperte e nell’utilizzo commerciale e politico di quest’ultime.

Con la medesima enfasi che da anni accompagna i rinvenimenti pompeiani della Regio V e della Villa di Civita Giuliana, il ministro Franceschini ha annunciato sabato una «scoperta eccezionale, altri due giganti emergono dalla necropoli di Mont’e Prama a Cabras». Più nel dettaglio, ad essere stati riportati alla luce sono i torsi, le teste e altri frammenti di due sculture in arenaria identificate dagli specialisti come «pugilatori del tipo Cavalupo», per la presenza dello scudo arrotolato davanti al tronco. Tale definizione deriva dall’accostamento con il bronzetto nuragico dalla necropoli di Cavalupo-Vulci (metà del IX sec. a.C.), considerato da Giovanni Lilliu un sacerdote militare. Le due statue sono state rinvenute a pochi metri da due esemplari del tutto simili recuperati nel 2014 ed esposti nel Museo Civico Giovanni Marongiu di Cabras.

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L’interesse della scoperta consiste nella collocazione della tipologia statuaria, la quale dimostra – secondo l’ipotesi divulgata dallo studioso di protostoria della Sardegna Alberto Moravetti – che le rappresentazioni dei sacerdoti militari erano concentrate nel settore meridionale dell’area funeraria di Mont’e Prama. La notizia è rimbalzata velocemente dal sito web del MiC ai tg nazionali, suscitando anche l’attenzione della stampa europea.

A RIPROVA DI COME FUNZIONI il sensazionalismo, mentre sull’isola si scatenava un’euforia collettiva, le statue rivelate dalla Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio della città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna giacevano ancora in strato tra gli strumenti di lavoro degli archeologi. Lo stesso direttore degli scavi, Alessandro Usai, non ha esitato a sottolineare «l’emozione di vedere qualcosa prendere forma davanti ai tuoi occhi che viene fuori dalla terra. Cose che sapevi essere sepolte lì».

Una narrazione che, malgrado gli importanti risultati della ricerca, prediligendo il reperto eclatante al racconto di un contesto unico nel quadro del Mediterraneo – di cui molti aspetti restano da chiarire – contribuisce ad alimentare l’immagine dell’archeologo quale cacciatore di tesori. Inoltre, l’équipe attiva a Mont’e Prama ha generato, forse inconsapevolmente, una scena degna di un film di Indiana Jones. Nella foto scelta da molti media per illustrare la scoperta, viene infatti ostentato non un frammento scultoreo (poco attraente in attesa del restauro) ma un cranio appena estratto da una fossa funeraria, tenuto a mani nude da un’addetta ai lavori.

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Un’immagine che ha indignato gli antropologi di diverse istituzioni accademiche e che stride con le foto realizzate sul campo tra il 2014 e il 2016, quando i ricercatori dell’Università di Sassari coordinati dal microbiologo di fama internazionale Salvatore Rubino operavano nella necropoli di Mont’e Prama nel più rigoroso rispetto dei protocolli inerenti ai resti umani, con l’obiettivo di proseguire in laboratorio le indagini sul Dna degli inumati. A giorni dovrebbe arrivare la nomina del primo direttore (o della prima direttrice) della Fondazione Mont’e Prama, ente costituito quasi un anno fa per la gestione del complesso statuario e di altri siti emblematici del Sinis (tuttavia rimasti finora sullo sfondo del dibattito pubblico e delle iniziative promozionali della Fondazione).

NEL FRATTEMPO, abbonda nelle bocche di esponenti politici regionali e locali la retorica di Mont’e Prama quale sito «miniera», suscettibile di creare nell’isola un indotto turistico senza precedenti. Come se i «giganti» nuragici, testimonial involontari di interessi economici e personalistici, potessero – a queste condizioni – mettere fine al disastro culturale in atto.