Le pubblicazioni riguardanti Montale si espandono giorno dopo giorno, e perfino ai più dotati di buona volontà risulta difficile non provare ogni tanto un sentimento di saturazione di fronte all’ennesimo scritto che risulta alla fine senza scopo, e che tanto vale far precipitare dal velleitario delle intenzioni dell’autore al cestino dell’inutile. Per fortuna non mancano le eccezioni, delle quali diventa dunque tanto più necessario dare notizia al lettore. Si vorrebbe, in sintesi, che tante novità fossero di aiuto e non di inciampo a entrare nel mondo del poeta e per i sentieri del suo lascito, senza sperdersi per viottoli torti e ritorti.
Così, è opportuno segnalare la nascita dei Quaderni montaliani, che una società di studiosi provvederà a promuovere annualmente (tra loro Anna Nozzoli, della quale preme segnalare la recente raccolta di saggi sul poeta, lentamente distillati, raccolti sotto il titolo La ragione e il sogno, Società Editrice Fiorentina, pp. 234, € 18,00). Il primo numero dei «Quaderni» reca la data del 2021 (Interlinea, pp. 241, € 25,00) e chi lo avrà per le mani ne percepirà subito l’intenzione di render conto – soprattutto con le recensioni – della fitta produzione che si diceva, disboscando un po’ e apponendo qualche segnale di strada utile a non sottrarre tempo alla lettura diretta di Montale. La rivista si apre con una sezione di testi, e spicca ovviamente Poeta suo malgrado, ovvero «una conferenza che Montale non pubblicò mai, ma pronunciò più volte in luoghi e momenti diversi in un lungo arco di tempo (1947-1962), in Italia e all’estero», come avverte Gianfranca Lavezzi, che l’ha portata in luce dalle carte del poeta depositate a Pavia. Scrive Montale, col tono che i suoi affezionati riconoscono: «Perché io sono, e non a caso ho intitolato queste confidenze, ‘poeta suo malgrado’, un uomo che è giunto alla poesia (o a qualcosa che taluni hanno creduto poesia) senza esserselo proposto deliberatamente e quasi senza saperlo; non dunque un poeta improvvisato ma un poeta che si riconobbe per tale solo di fronte alla natura dell’opera compiuta, un uomo che si è semplicemente arreso a certi fatti ch’egli non aveva né idoleggiati né preveduti». Sarà vero? Ma se lo dice il poeta (sia pur per «depistare», come si avvertiva sull’uscio di Satura), occorre stare al suo gioco, sospendendo l’incredulità, come egli stesso nelle sue serate all’opera, nelle prime alla Scala.
Ma in che modo stare al gioco rileggendo il Quaderno di traduzioni, nel quale la poesia in ogni sua forma si mostra essere un riferimento costante, quotidiano, di Montale? Non è il Quaderno di traduzioni la testimonianza più evidente della consapevolezza di Montale di «essere giunto» alla poesia anche attraverso le voci di tanti poeti che egli, nel corso degli anni, ha fatto proprie? Del Quaderno esce – nell’ambito dell’edizione commentata delle opere avviata negli «Oscar» e continuata nello «Specchio» – un’edizione curata da Enrico Testa (Mondadori, pp. XX-252, € 20,00). La buona idea è stata di far seguire alle versioni montaliane la raccolta degli scritti da lui dedicati ai poeti tradotti: così che il libro diventa una introduzione ideale al rapporto tra Montale e i poeti incontrati in altra lingua, un bel vademecum che è proprio un libro di Montale – infatti incluso nell’Opera in versi e nelle Concordanze. E tornando dagli scritti sui poeti alle versioni, si prende consapevolezza di quanto Testa scrive nell’introduzione, ovvero che i risultati di Montale traduttore possono essere così compendiati: «una massima concentrazione del discorso poetico (di cui è prova incontestabile la frequente cancellazione di non pochi aggettivi presenti nelle liriche di partenza); costruzione di un testo, al tempo stesso, incisivo e inciso e dalla sintassi inquieta e mossa; effetti di musicalità sincopata e ben più moderna dei montaliani gusti musicali. E tutto questo nel segno di un rapporto dialogico e non pacifico nei confronti del testo originale», restando «fedeli tradendo e sempre però restando fedeli a se stessi come poeta».
Fedele a se stesso fu anche il Montale prosatore. Nello stesso 1956 della Bufera, esce la raccolta intitolata Farfalla di Dinard, sulla quale, in una riflessione del 1969, il poeta scriveva di aver presto perso l’illusione di diventare un «cesellatore di brevi gioielli di “prosa d’arte”. D’altra parte mi mancava la fantasia del narratore nato e non potevo contare che su ricordi personali, su esperienze vissute. Non disponevo certo del pozzo di San Patrizio avendo sempre condotto una vita appartata, dopo il ’40 semiclandestino. In compenso quelle poche memorie erano andate lievitando e di giorno in giorno mi sembravano sempre più irreali. Non potevo fonderle in un tutto omogeneo, in un continuo. Si rifiutavano di organizzarsi secondo un ordine e una prospettiva. Dovevo lasciarle sorgere a piacer loro e così fu. Nacquero così i racconti non-racconti, le poesie non-poesia che anni dopo raccolsi sotto il titolo La farfalla di Dinard».
Come sempre, mentre si mostra, Montale si nasconde, e viceversa. Ora la vicenda della Farfalla può essere ripercorsa con maggior agio grazie alla messa a fuoco che, tramite un’ampia introduzione e un ricco commento, ci procura l’edizione curata da Niccolò Scaffai (sempre nello «Specchio» Mondadori, pp. LVIII-389, € 22,00). Non solo la trasparenza ricercata del dettato si mostra segretamente inquieta e increspata da un ricco sottotesto, ma, più di quanto non appaia, Farfalla si mostra essere stato un libro tenuto in massimo conto, anche quando non dichiaratamente, da una parte rilevante dei prosatori italiani. Punto di arrivo e punto di partenza, queste prose sono proprio il contatto o il punto di connessione con una stagione romanzesca che ai fuochi d’artificio preferiva la dissimulazione o perfino la sprezzatura: una levigatezza che è invece tutto movimento, come sarà in certe pagine di Bassani.
Quasi per smentire l’affermazione montaliana di mancare della «fantasia del narratore nato», o meglio per mostrare il tratto speciale e tutto suo del Montale narratore, lo stesso Scaffai aveva radunato nel 2008 una scelta dalla Farfalla, da Fuori di casa e da altri luoghi, apponendo il titolo Prose narrative. Quella scelta abbondantemente motivata era seguita da un breve articolo di Emilio Cecchi dal titolo inequivocabile di Montale narratore. Cecchi ricordava come Montale avesse definito le pagine della Farfalla «elzevirini» (con questo termine prossimo a Landolfi, in sottotono, il poeta smentiva anche la non appartenenza alla miglior stagione della prosa d’arte, verso la quale ostentava avversione, come se fosse una cosa sola anziché una varietà; e non proprio la varietà raccolta da Falqui nella sua celebre antologia), aggiungendo la predilezione del poeta «per una forma secca e immediata: come approssimativamente potrebbe essere di certi naturalisti francesi e siciliani». Non sapremmo confermare l’esattezza della descrizione di Cecchi (e non solo perché una cosa sono i naturalisti francesi e un’altra cosa i siciliani), ma l’idea di quel Montale dry era giusta. Solo che anche il dry è molte cose, e quello di Montale è ben diverso da quello di Moravia (di un Moravia dry parlò a suo tempo Arbasino). Di Cecchi si potrà citare anche, come atto pratico di «invito alla Farfalla», la rapida rassegna sulla «grande varietà di emozione» suscitata di volta in volta dai pezzi del libro. Però occorre ricordare che Invito alla Farfalla di Dinard era uno dei capitoli di I segni e la critica di Cesare Segre, dove è il tratto che ha spesso contraddistinto la critica di fronte al libro di Montale: Segre sembrava – nella sua semiotica – partire da un disagio, diciamo così, crociano (e suggerito, portandolo agli estremi, dal calco delle parole di Montale), se scriveva proprio all’ingresso: «essendo nate, queste prose, a un livello immaginativo che non è più autobiografia e non è ancora o non è del tutto o non è più poesia». Formula sulla quale non occorre troppo attardarsi.
Il commento ci pare tener conto dell’indicazione di uno dei critici montaliani per eccellenza, Marco Forti, nel ritenere «la prosa narrativa come parte non ancillare dell’opera montaliana». E, per stare ai termini appena utilizzati, ha ragione Scaffai a osservare che, se Montale «non rifiuta a priori il genere della prosa d’arte, non sembra invece ammettere un’arte della prosa che rinunci alla costruzione del racconto, alla sua tecnica; la Farfalla si apre proprio con un testo che rappresenta anche una riflessione sul narrare». È per questo che, nonostante l’aria occasionale e cristallina che esibisce, Farfalla di Dinard è un testo enigmatico, una sfinge letteraria.