Nella prima metà del 1917 Eugenio Montale tenne un diario, riaffiorato soltanto sessantacinque anni dopo, quando la nipote Bianca fece ordine nei fogli sparsi dello zio. Il famigerato Quaderno genovese, apparso nel 1983 per Mondadori con la curatela meticolosa di Laura Barile e una bandella di sovracoperta di Gianfranco Contini, ora ristampato da Il Canneto Editore (pp. 208, € 15,00), è un documento per certi versi cruciale, figlio di una stagione di effervescente autodidassi e di vagiti poetici, la cui incidenza rimane emblematica per misurare il tragitto letterario dell’autore ligure. «Questo quaderno – scrive Barile che firma un’introduzione nuova di zecca, sommata alla postfazione dell’edizione mondadoriana e all’imponente apparato di note – è dunque testimone dell’intensa, vitalissima formazione di Montale ventenne: le sue letture, dai grandi simbolisti francesi ai minori più recenti, i romanzi russi e le novelle; le musiche che ascoltava, le opere e le operette, il teatro; la sua inquietudine e la sua sete religiosa». Notevole è il ricordo di Solmi, riportato nell’appendice Soldato a Parma, riguardo ai primi versi montaliani (Meriggiare e Suonatina di pianoforte), declamati cum viva voce all’amico nell’autunno del ’17 in una latteria parmense: «Si inaugurava un nuovo corso della poesia italiana, caratterizzato dalla presa di coscienza che, con la guerra mondiale, si era verificata una frattura col mondo e con la poesia precedente».

L’importanza del Quaderno genovese risiede nel fatto che esso è il granello di senape dal quale germoglierà la pianta: in questi appunti grezzi e sorprendenti, dove il poeta si fa già strada con una debussiana idea di lirica e un atteggiamento speculativo vicino al contingentismo di Boutroux, possiamo visualizzare la parabola artistica nella sua ampiezza. Una parabola che si assesta d’emblée su preoccupazioni metafisiche, legate all’unità tra soggetto e destinatario: «La curiosità permanente per l’oltre, la sua eterna inquietudine sul senso, l’angoscia del mistero del nostro essere qui è il nodo centrale della sua poesia. Montale cerca: cerca impulsivamente, con impeto ma anche sofferenza», chiosa ancora Barile. Non dimentichiamo il fulmineo interrogativo che Eugenio rivolse di rimando a Manlio Cangoni nel ’68: «Perché mai l’uomo deve avere questa aspirazione, questa scontentezza, questa intuizione dell’Altro?».

Il Quaderno è però un’opzione letteraria in sé compiuta, un genre a tutti gli effetti – il cahier di tradizione francese –, rientra appieno nell’opera in prosa, eludendo le insidie del brogliaccio e serbando un andamento progettuale (d’altra parte è stato inserito da Giorgio Zampa, senza note, nel Meridiano del ’96). Chi sono i modelli? Amiel, Soffici, Duhamel e particolarmente il Livre des Masques di Rémy de Gourmont. Di Duhamel, ad esempio, Montale scrive che «concepisce la poesia come escavazione, sondaggio, penetrazione (…), l’immagine è una conoscenza del mondo, che vale quanto quella scientifica, ed ha un carattere grande e quasi religioso». Posizione chiarissima che sarà consolidata nelle Occasioni e nella Bufera e altro. Per non parlare dell’«identità degli opposti», altro grande mantra già presente nel diario declinato in forma di adynaton, ossimoro, antinomia. Come poi farà il redattore del Corriere della Sera, il Montale critico sbircia più che leggere, annusa i libri riuscendo a fiutare sempre il centro del discorso.

E cosa ne viene fuori, dalle sbirciature e dalle giornate trascorse in biblioteca? Un simpatico zibaldone che ha come protagonisti il poeta – il quale si autoaccusa costantemente di «idiotismo»! – e il suo invisibile uditorio. E allora, a cascata: dissensi con Slataper interprete di Ibsen («Criticastri!! Quando la finirete?»), problemi tecnici di scrittura («Scrivo con le mani legate. Orribili geloni, piaghe incredibili»), giudizi tranchant («Letto: Balzac: Le curé de Tours, breve romanzo provinciale. Bruttissimo e pesante; ma breve»), precisazioni umorali («Sainte-Beuve, ed altre sciocchezze»), dissesti metereologici («Pioggia. Testa vuota e piedi gelati»), teorizzazioni ur-Ossi di seppia («La musica dia il sentimento»), titanismo alfieriano («Non ho che un nemico: la Natura»), catastrofismo lavorativo («Oggi ufficio mattina e sera da Papà. Gran seccaggine»), nuovi dissesti metereologici («Tempo piovigginoso; sbadigli e imbecillità, mia s’intende»), punti di vista affrettati («In confronto a de Lisle] Hugo è un ciabattino analfabeta»). Fino ai più sottili slanci religiosi: «Il giorno 26 mi colpì – in Biblioteca! – come un raggio di luce, durante la lettura dell’Homme di Ernesto Hello: mi parve di aver ritrovato la fede del carbonaio. Tornato a casa avrei letto quante più vite di santi, libri mistici e agiografici, mi fossero venuti tra le mani (…). Da tre giorni il dubbio mi par pazzesco, la ragione uno strumento diabolico! Davvero che la Fede è grazia e non si può averla senza una completa sfiducia nelle capriole della logica».

Il giovane Montale sembra possedere la fois du charbonnier, rimette mano a Sagesse di Verlaine, il «libro della conversione», apprezza il Partage de Midi di Claudel. È lì per aderire pienamente: poi ci ripensa, fa un passo indietro. Il diario è già concluso. È l’ora della chiamata alle armi, inizia la ricerca lunga ed estenuante della poesia dagli Ossi al Quaderno di quattro anni. Ma i tratti salienti del futuro sono scritti già qui.