Per il signor di Montaigne, come per Philibert de l’Orme che lo precede, il culto dell’Antico costituisce la molla che spinge in Italia questo viaggiatore curiosissimo e geniale, a suo modo bizzarro, ma provvisto di un occhio penetrante e intelligente vòlto a guardare con inesauribile curiosità nelle pieghe di questo paese. Il gusto di Montaigne non è un telaio rigido che condiziona le sue esperienze estetiche: Bello per lui vuoi dire, anzitutto, grande e maestoso, e, secondariamente, ingegnoso e ricco; c’è da aggiungere che questa duplicità di parametri di riferimento è il segno di un’acuta attenzione verso quella che sarà la grande svolta manierista.
Questo sensibilissimo interprete del paese, quantunque nell’economia complessiva dedichi poche pagine alla descrizione del paesaggio, ha capacità d’analisi che s’impongono proprio per essere una rara testimonianza di questa attitudine a leggere il paese reale. Ora Viaggio in Italia Passando per la Svizzera e la Germania. 1580-1581 viene riproposto da La Vita Felice (nella versione Bompiani 1942, riveduta e corretta) a cura di Irene Riboni (introd. di Armando Torno, pp. 404, e 19,50). Un classico che non invecchia mai, anche se non va dimenticata l’edizione curata da Guido Piovene e Glauco Natoli (Parenti, 1959) e le tante bellissime pagine che Fausta Garavini ha dedicato a Montaigne.
Montaigne viaggia con suo fratello, con altri gentiluomini e alcuni domestici tra i quali il non meglio identificato segretario che è l’estensore della prima parte del Journal, per altro annotato e aggiornato da Montaigne stesso. Questi prende a scrivere di suo pugno, in un italiano in principio claudicante, poi più sicuro e disteso, il 16 febbraio del 1580. Il Journal, scritto dunque tra la prima edizione degli Essais e le successive, fu ritrovato nel 1770, in un tempo cioè in cui la fortuna del Grand Tour era all’apice e questo genere di memorialistica aveva un suo vasto pubblico e un florido mercato.
Alla fine di ottobre, dopo aver visitato la Germania, il signor di Montaigne raggiunge Bolzano e Trento. Un certo pregiudizio sfavorevole verso l’Italia sembra pesare in un inevitabile confronto con la Germania. Padova non ha maggior fortuna ai suoi occhi: il Palazzo della Ragione lo ammira per le insolite dimensioni. Lungo il naviglio del Brenta che conduce a Venezia scorge pianure fertilissime. Un’attenzione all’organizzazione della campagna che sarà una delle note più interessanti del diario. Le grandi opere idrauliche della Serenissima che consentono un’efficace organizzazione produttiva del suolo suscitano il suo interesse, ma rivela anche che molte opere sono in abbandono. Venezia lo lascia quasi indifferente, a parte le puttane numerosissime e lo sfarzo del vivere; procedendo sulla via per Ferrara lo colpisce il sistema di approvvigionamento d’acqua dolce per la città lagunare, per le belle strade e i magnifici palazzi.
Bologna sembra essere la città alla quale più s’interessa, «grande e bella città», «tutta piena di bei portici spaziosi e d’un grandissimo numero di bei palazzi». Sale sulla Torre degli Asinelli e fa una impeccabile descrizione della città: salire su un’architettura più alta o un monte diviene per lui un’abitudine che sarà modello per ogni viaggiatore.
Dopo la città felsìnea, Firenze; ancora un’incomprensione. Montaigne si direbbe un osservatore preoccupato a non ricalcare gli stereotipi dell’ammirazione per i centri più celebri e celebrati del paese. Cambierà opinione nel viaggio di ritorno. Egli riconosce così che dietro ogni luogo comune può nascondersi anche una verità. La campagna toscana continua, nel prosieguo del viaggio verso Siena, ad affascinarlo. Montaigne in pochi righi comprende il sistema urbano e lo descrive con rara immediatezza.
Avvicinandosi a Roma il paesaggio muta: a parte il ricorrente affiorare di rovine romane, di pavimentazioni a selciato, di reperti vari, l’aspetto della contrada è «aspro, montuoso, pieno di fosse profonde». A Roma sono dedicate molte pagine, anche un viaggiatore così originale non si sottrae a questo obbligo. Montaigne ha subito compreso che le mura circoscrivevano uno spazio semirurale, con orti giardini campagne, quale era possibile vedere in poche altre città italiane.
Ma altri passi sono centrali per capire il metodo che questo eccezionale visitatore adottava nel prendere contatto con una nuova città. Il 26 gennaio Montaigne sale sul monte Gianicolo per contemplare il panorama di tutte le parti di Roma, che non si vede da alcun altro luogo così chiaramente. Cerca sempre il luogo più alto, quello che diverrà nell’Ottocento il belvedere, osserva la città nelle sue parti, valuta l’orientamento topografico dei vari quartieri e le destinazioni funzionali dell’organismo urbano. Un procedimento ineccepibile che gli consente di visitarla con cognizione di causa, dopo aver acquisito una conoscenza complessiva a volo d’uccello. La topologia dei luoghi diventa così una condizione naturale da sfruttare ai fini della creazione estetica: la Villa d’Este sul Quirinale, la Villa Farnese al Palatino, quella dei Medici e degli Sforza e altre ancora lo testimoniano. L’efficacia di questa descrizione fa pensare a un geografo dotato di una graffiante scrittura: ma le sue note sono disseminate di queste felici e sintetiche letture del paesaggio.
L’attitudine a leggere artificio e natura ricorre come un rivolo sottile, ma autenticamente originale, in tutto il Journal. Tra Umbria e Toscana ritrova «le valli più amene, infiniti ruscelli, tante case e villaggi qua e là mi ricordano i dintorni di Firenze». Per Urbino passa distrattamente. Milano «non dissimiglia troppo a Parigi, e ha molto la vista di città francese». Ma non è la città più popolosa d’Italia: le stime sulla popolazione sono infondate: a quel tempo la città d’Italia più popolosa e vasta era Napoli, seconda in Europa solo a Parigi. Ma lui non giunse a Napoli.
Le pagine sui Bagni di Lucca sono una sorta di trattatello sugli effetti curativi delle acque di un uomo che soffriva di mal di pietra. Ma è ancora il paesaggio coltivato a richiamare la sua attenzione. Il signor di Montaigne si direbbe che privilegi i paesaggi collinari dell’Appennino o, per finire, quelli dell’alta montagna: «Feci la salita del Moncenisio sulla via del ritorno – metà a cavallo e metà in lettiga, con quattro portatori che mi reggevano a spalle… La salita dura due ore nella buona stagione». Lo spettacolo maestoso delle Alpi è al tramonto di questo viaggio: uno spettacolo che avrà pari fortuna soltanto alla fine del XVIII secolo.
Ma Roma rimane ovviamente il punto fermo del soggiorno in Italia per i viaggiatori come per gli artisti. Ma non sono veri e propri viaggi in Italia, piuttosto partenze alla volta di Roma dove, dai primi decenni del Seicento, sbocciano le grandi correnti artistiche del secolo e dove gli stranieri sono altrettanto numerosi degli italiani. È il secolo nel quale, soprattutto in Francia, si manifesta una vera e propria infatuazione per l’Italia. Montaigne aveva già avuto l’occasione di accogersene, come dice lui stesso: «il ne se trouvait en la rue quasi personne qui ne le saluaiten sa langue». È la Roma delle arti, delle lettere e delle antichità; mai il suo ruolo è stato così determinante, particolarmente in Francia, eppure è l’epoca per la quale si ha forse il minor numero di giornali di viaggio. A Roma Montaigne chiede visita al Pontefice, anche se è un laico. Non sopporta il continuo controllo del bagaglio alle troppe numerose frontiere che incontra nella sua discesa verso l’Urbe, né il cambio di valuta.
Il signor di Montaigne era partito il 22 giugno del 1580 e ritorna a Parigi il 30 novembre del 1581. «Così il mio viaggio era durato 17 mesi e otto giorni»: con queste testuali, tacitiane parole si conclude il suo memorabile diario.