Due vite, due corpi, due modi singolarissimi di stare al mondo e di vivere l’arte, che si sfiorano, si toccano, si danno l’uno all’altro, avvolti nella visione del mare di scogli dello Jonio. Dalla sua sabbia lavica e lucente, dall’acqua che trabocca e sbatte, della schiuma che si incunea tra le pietre. Levigandole fino a farle un’unica cosa col tempo e la natura tutta.

«Danilo Ferrari è scrittore e attore. Parla solo con gli occhi». «Felice Tagliaferri è scultore. Non vedente». Queste note su fondo scuro si imprimono sull’incipit di Andrei bene per il cinema muto, film breve di Monica Felloni, presentato lo scorso agosto al Palazzo dei Congressi di Taormina.

Un affettuoso filo di umorismo attraversa dunque il titolo, creando un brillio in trasparenza nelle immagini. Una levità e una profondità che Felloni – fondatrice di Neon Teatro (Catania, 1989), col compagno Piero Ristagno – per una vita ha ricercato nell’infinita umana diversità dei modi di sentire.
Intanto l’aura del corto sprigiona suoni di gabbiani e vibrazioni forgiate come all’interno di una caverna: si comprende che Felice e Danilo sono soliti incontrarsi in questo paesaggio a picco sul mare in quella che la voice over di Felloni stessa, richiamandosi a Saramago, chiama «l’officina dello scultore». (E la Fondazione Saramago insieme a Libera e a Classiche forme sostiene il film). Un’officina a cielo aperto, dunque, tra respiro e passione totale.

Felice, infatti, scolpisce una testa, ne segue i contorni interiori, lascia che affiori un volto: e alla fine sapremo quale. Mani scalpello martello mani e ferri elettrici del mestiere a pochi millimetri dalla sua pelle dai suoi gesti che si muovono con sicurezza rabdomantica senza mai rischiare di ferirsi.
Cosa è allora il vedere? Quali forme infinitamente differenti può assumere? E da dove viene la forma che emerge dall’oscurità?

Sulla spiaggia antracite arriva poi Danilo: una donna elegante, abito lungo in velluto amaranto, accompagna la sua carrozzina fino a una postazione in cui possa bearsi del sole. Felice passa allora senza soluzione di continuità dalle fisiognomica che sta scolpendo al volto di Danilo, avvicina il suo viso a quello del giovane amico, gli sfiora il petto con la mano ancora calda della polvere che ha appena tratto dal marmo, con la mano impastata nella sua stessa arte: testa con testa piedi con piedi, spalle con spalle, li vediamo dall’alto come in una feritoia tra le rocce, mentre i piedi di Danilo si toccano l’un l’altro, mentre le sue mani come attorcigliate si schiudono: li vediamo farsi tutt’uno di corpi che si compenetrano, che parlano il linguaggio di questa amicizia tattile, mentre rintoccano fotogrammi neri e il bianco del cane di Felice si mischia al blu delle onde.

«C’è tempo c’è spazio c’è tutto il corpo. Ci sono più parole in un millimetro di pelle che in mille pagine di carta». Risuona rotonda e sapiente, la voce di Felloni in questo scenario, pronunciando anche parole tratte da Ciatu di Ristagno.
E, come in Gita al faro di Virginia Woolf, sembra quasi di avvertire il debordare del mare, gli schizzi protendersi verso di noi mentre, sulle note di Purcell ora Felice ora Danilo guardano in macchina – primissimo piano con sorriso di beatitudine.

Allora nitidamente avvertiamo che di questo contatto con l’altro l’altra, di questa presenza di questo parlarsi pelle con pelle occhi negli occhi – di cui siamo stati così intimamente deprivati in questi due ultimi anni – di tutto questo abbiamo uno spietato desiderio un bisogno imprescindibile.

E anche la regia di Felloni scolpisce, modella geometrie di spazio aria musica natura: parole come «acqua fredda spruzzata su una campana di cristallo» . Lo fa con sicurezza, con sensibilità, mettendo in gioco la sua voce il suo corpo e l’energia sottile con cui per oltre trent’anni ha guidato con Ristagno laboratori di teatro, scrittura poetica e danza nelle scuole, lo fa come accade in Anima Mundi, spettacolo teatrale che ha preceduto la proiezione del film.

Un lavoro che ha visto il rispecchiarsi potente del pubblico, la presenza in scena di Danilo Ferrari, di attori e attrici con disabilità e non. E insieme una sperimentazione che, sia in ambito teatrale, sia in questo inizio cinematografico, sa unire energia e tenerezza, fragilità e bellezza, unicità incontrovertibile dei corpi e singolarità mirabile dei linguaggi. Politica e poetica espansione della percezione di sé e degli altri, che è liberatorio effusivo reciproco sentirci.