Le omissioni possono essere volontarie o meno, possono essere reati o perdite di memoria o rimozioni inconsce: tutte queste varianti si ritrovano nelle pagine dell’ultimo romanzo di Emiliano Monge, Le omissioni (La Nuova Frontiera, pp. 352, € 19,00) il cui titolo italiano è stato dunque felicemente sostituito all’originale, No contar todo, perché prefigura quella strategia del «non detto», che i protagonisti utilizzeranno largamente nelle loro vite, con non indifferenti conseguenze.
Solo in apparenza, il romanzo sembra un ennesimo caso di quel dilagante modello narrativo che è la autofinzione: tutto gira infatti intorno a tre generazioni della famiglia dell’autore, e ad avvenimenti reali vissuti dallo stesso autore, da suo padre, Carlos Monge Sánchez, e dal nonno, Carlos Monge McKay. Ma osservato più da vicino, il romanzo si rivela piuttosto una fuga da quel modello, o il risultato di una ardita fusione tra l’autofinzione e la tradizione latinoamericana del «romanzo totale», un risultato inusuale e ambizioso, che viene raggiunto grazie all’abile gioco di specchi tra strategie narrative, stili di scrittura e racconti dei personaggi, con rapidi mutamenti di voci e di registri, il tutto legato dal filo rosso della fuga e della dimenticanza.

Tre generazioni, ognuna la sua voce
Le scelte narrative sono infatti multiple: il nonno racconta la sua storia in prima persona nelle pagine di tre diari, ritrovati tra le poche cose che lascerà alla sua morte; il padre è impegnato un dialogo serrato con il figlio Emiliano in cui lo rimprovera e lo insulta in seconda persona; mentre l’autore sceglie di raccontarsi in terza persona, trasformandosi in un personaggio che si fa conoscere grazie a lunghi incisi sciorinati come liste di eventi, che creano una singolare distanza testuale da qualsiasi tentazione di tono confessionale.

A ogni scelta corrisponde una peculiare variante della scrittura: il tono intimo e personale dei diari si accompagna al turpiloquio molto messicano del dialogo tra padre e figlio, mentre la visione distaccata di sé oscilla tra il quotidiano e lo straordinario, come era già accaduto negli altri romanzi di Monge, e specialmente in Las tierras arrasadas (grazie al buon risultato raggiunto dalla traduttrice Elisa Tramontin).

L’alternarsi di punti di vista e stili di scrittura trasforma così la possibile evocazione di una memoria familiare in affresco collettivo, e sulle storie individuali si allunga l’ombra di una Storia più vasta e complessa, tessuta di violenza: le origini del narcotraffico nello stato di Sinaloa, la guerriglia degli anni sessanta, i movimenti studenteschi del sessantotto, le trame di una politica contaminata dalla corruzione.

A proposito di fughe e abbandoni: spettacolare è la scomparsa del nonno dalla scena, le cui ragioni spunteranno fuori solo dai diari; il padre ne segue l’esempio, ma per tappe, unendosi alla guerriglia rurale e ai movimenti studenteschi degli anni Sessanta, poi tornando a una tranquilla vita borghese, e finalmente fuggendo di nuovo, con distanziamenti progressivi, che lo porteranno fino in Spagna, dove si rifarà una vita come scultore. Quelle di Emiliano, invece, non sono fughe reali, piuttosto continui cambi di identità, fantasie su nuove vite in cui potrà superare i limiti che gli impone la salute, il carattere, le sue inibizioni e inventando veri sdoppiamenti di personalità.

Prima ancora di fuggire da se stessi, i tre personaggi scappano dai ruoli assegnati dalle due forme – la famiglia tradizionale e la nazione – intorno a cui ruota la società messicana, e sebbene la famiglia dei Monge mostri in effetti una sua disfunzionalità peculiare, in essa si rivelano conflitti più universali: «Quello era il nostro abisso, non condividere con nessun altro la parte che toccava a ciascuno», mentre nella nazione il padre identifica il luogo in cui «qualunque questione onesta è mal vista, paese di merda di nani cerebrali ed emiplegici dell’animo».
In essa si radica la violenza che i tre uomini allo stesso tempo soffrono e causano, immersi come sono in un sistema violento per definizione.

Sussurri all’orecchio di un stirpe
La costruzione di una fisionomia individuale non potrà passare, allora, se non dalla negazione, dalla fuga da modelli ormai in bancarotta, attraverso morti contraffatte o vagheggiate, la cui falsità è regola. Nei tre protagonisti vanno dunque visti dei falsari guidati dal presentimento, «ciò che presto o tardi sussurra all’orecchio della mia stirpe, facendoci rompere con il passato».
Emiliano Monge rivelò in una intervista di qualche anno fa la sua sintonia con una frase di Beckett che diceva di aver sempre cercato la voce del silenzio: in questo suo ultimo romanzo, indagando i silenzi della propria famiglia e della propria nazione, ha forse raggiunto quell’obiettivo, mostrando come chi ha vissuto le omissioni, quel «non raccontare tutto», ha con ciò raggiunto una forma estrema di resilienza.