Nell’atrio antistante le due sale ovali con le Ninfee (1918-1926) di Monet, su una parete è il Quadro verde di Ellsworth Kelly del 1952, e di fronte le minimaliste sagome nere su bianco delle sue Ninfee. È l’omaggio di Éric de Chassey all’artista che, per primo, ha indicato nel vecchio impressionista un esplicito riferimento. Si scende poi al piano inferiore, dove Cécile Debray, direttrice del Museo dell’Orangerie, ha allestito la mostra Nymphéas. L’abstraction américaine et le dernier Monet (fino al 20 agosto) nel centenario della proposta comunicata a Georges Clemenceau di dipingere e donare allo Stato le grandi composizioni. Alcune Ninfee di Monet scandiscono la sequenza di quadri di artisti della Scuola di New York, operanti tra le definizioni di Espressionismo astratto e Action Painting. Ci sono i pittori considerati da Clement Greenberg nell’American-type painting pubblicato nel 1955 (Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning, Clyfford Still, Barnett Newman), i color-field (campi di colore) di Morris Louis e Helen Frankenthaler e i pittori riuniti da Lawrence Alloway nel 1958 nella mostra londinese Abstract Impressionism. A metà della compagine un pannello sottolinea come The Late Monet di Clement Greenberg (1956, ma su Monet si era espresso già nel ’48) sia al centro del tema della mostra.
La curatrice dichiara l’intenzione di mostrare affinità basate, più che sui non numerosi legami di fatto, su risonanze visive. Le riflessioni degli artisti sono per lo più successive alle scelte del direttore del MoMA Alfred Barr e di Greenberg, e la loro affinità con il tardo Monet è ricostruita «a posteriori» proprio su tali scelte; in realtà, le suggestioni che la mostra indubbiamente suscita andrebbero incanalate in una riflessione sul contesto storico-critico in modo più imparziale rispetto a quello, pur lodevole, rintracciabile nell’allestimento.
Nel 1955, parallelamente allo studio di Greenberg, il MoMA acquista un pannello di Ninfee, poi distrutto da un incendio e sostituito da altri due dipinti. Secondo Greenberg, «gli espressionisti astratti hanno realizzato qualcosa che, penso, è il progresso più radicale di questi ultimi vent’anni e che non ha equivalente a Parigi». Stabilisce quindi una nuova preminenza delle avanguardie americane sulla contemporanea arte francese, che non è più modello da seguire. Sono i pittori americani che hanno riscoperto come astrattista «il tardo Monet» dei pannelli donati allo Stato, che in effetti i francesi avevano accolto in gran parte malamente, come opera decorativa attardata o comunque non allineata alle tendenze degli anni venti. Nel ’52, alla riapertura dell’Orangerie già chiusa per restauri, André Masson, che tra l’altro aveva esportato l’esperienza surrealista negli USA influenzando artisti come Pollock, ha esaltato l’opera come «una delle vette del genio francese», posta in un museo che è «la Sistina dell’impressionismo». Greenberg sposta l’idea di capolavoro da Monet ai suoi pittori, che ha sempre letto, come è noto, in una concezione formalista, poi respinta dalla critica successiva.
La pennellata di un cieco
La rivendicazione di una priorità americana non sarà senza conseguenze nella storiografia. Ma, ritornando all’attenzione per il tardo Monet, i punti di contatto si dovrebbero cogliere nel gesto pittorico e nella spazialità ambientale. La pennellata del vecchio francese, ormai quasi cieco, non definisce più elementi individuali e individuati nella natura, e nemmeno un’impressione puramente ottica; ha una vita propria, creata dalla pasta pittorica, dalla mano e dall’immersione dell’artista in un paesaggio tanto amato. Nulla annuncia l’eroica affermazione esistenziale, né il gesto fortemente affermativo della Action Painting. La spazialità ambientale, poi, è maggiore nelle Ninfee, a patto che non le si consideri, erroneamente, opera decorativa. Quanto Monet disperde nell’aria il suo estremo capolavoro, tanto i cosiddetti astrattisti americani (che peraltro contestano di esser chiamati tali) vogliono uscire dal quadro per aggredire la realtà; quanto il fruitore, nelle due sale ovali, si perde nella freschezza di un’atmosfera colorata per taluni serena, per altri malinconica e cupa (la perdita della moglie, la coscienza della prossima fine), tanto, di fronte agli espressionisti astratti, si sente chiamato a pensare e reagire.
Il taglio della mostra è dichiarato, quindi per i francesi non ci sarebbe stato posto, ma ricordiamo che alla mostra Véhémences confrontées di Marcel Tapié del 1951, oltre a Riopelle, De Kooning, Pollock, esponevano Camille Bryen, Hans Hartung e Georges Mathieu. Siamo all’alba dell’affermazione del temine Informel, che coinvolgerà anche Fautrier, il quale conosceva bene Monet, come si è potuto riflettere alla mostra da poco conclusa, a lui dedicata al Musée d’Art Moderne de la Ville.
L’«eco» scatta comunque tra dipinti scelti ad hoc: un brano di Giverny al tramonto accanto a dipinti con toni caldi, salici a fianco di un dripping, uno sguardo d’insieme all’intera serie accanto ai più dilatati color-field e a Rothko, l’insondabile dell’acqua sotto una ninfea accanto a The Deep (1953) di Pollock, o a Blue (1958) di Sam Francis. Un confronto che spieghi la presenza di Tobey con la sua sottile e brulicante «scrittura», sinceramente, non l’ho trovato.
Il rapporto più pertinente è con la tendenza dell’«Impressionismo astratto», nonostante l’ambiguità del termine che includerà anche artisti di retroguardia; con il canadese Jean-Paul Riopelle (a Parigi dal 1947, di provenienza surrealista), con la più testualmente monettiana, malgré soi, Joan Mitchell, con Sam Francis, Philip Guston e altri, e la definizione si è estesa, ad esempio, al francese Alfred Manessier, che non gravitava propriamente nell’area informale. Sono gli artisti scelti da Alloway per la mostra del 1958; ma il termine è creato da Elaine de Kooning, moglie di Willem, nel 1955 e da Louis Finkelstein in un articolo del 1956, New look: Abstract-Impressionism.
La de Kooning sottolinea in realtà una divergenza: «Mentre gli impressionisti tendevano a operare sugli effetti ottici della natura, gli impressionisti americani si interessavano agli effetti ottici degli stati spirituali, applicando così un vecchio stile a un soggetto nuovo». L’indicazione di Finkelstein, invece, è più incondizionata e diretta proprio a Monet: connotando l’originalità di alcuni pittori dell’espressionismo astratto, ne distingue «la visione fondamentalmente impressionista», fondata «sulle qualità di percezione della luce, dello spazio e dell’aria piuttosto che sulla superficie pittorica». È la «sensibilità visiva» che collega le Ninfee a questi artisti e, aggiunge, a molti altri.
Il caso Sam Francis
Tra gli entusiasti di Monet si distingue al tempo stesso per qualità e affinità, a mio avviso, il californiano Sam Francis, che tra l’altro ha un particolare feeling con Parigi: vi trascorre, dal 1950, molti anni ed è in contatto con il critico Georges Duthuit, genero di Matisse. Il suo tributo a Monet, riferito alla sua visita all’Orangerie nel 1953, è tra i più espliciti: «Un grande shock, la scoperta delle Ninfee… Erano meravigliose, perché erano così libere, proprio come i dipinti di un cieco».
Il merito della mostra è forse soprattutto quello di aver chiarito, attraverso relativamente pochi esempi, differenze di tendenza nella Scuola di New York. Sarà meglio che il pubblico su questo rifletta, piuttosto che sul duplice effetto di aver concentrato l’attenzione sull’influenza di un museo americano (se mai ce ne fosse bisogno) e sulla riscoperta del metodo critico di Greenberg a essa connesso.