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Un grido di dolore e di allarme sulle “generazioni perdute” quello consegnato a un editoriale della rivista “Historia Magistra” da Piero Bevilacqua, uno studioso che ha sempre riflettuto, criticamente, come si dovrebbe fare, sul proprio mestiere di docente, e sull’ambiente dove tale mestiere si esplica. Un grido di dolore e di allarme, portato da Bevilacqua anche sulle pagine del manifesto con l’apertura di un dibattito sulla “questione giovanile”, con analisi e racconti di storie personali. Non il solo, certamente, in questi anni di crisi.

Il precariato, l’inoccupazione, lo scoraggiamento per l’attesa vana, la frustrazione per i troppi, implacabili rifiuti, la constatazione della antica disonestà e della eterna furberia dominanti negli ambienti dell’università e della ricerca, aggravate dalla feroce struggle for life di questi tempi infami, hanno trovato nel corso degli anni analisi, in ambito scientifico, denunce, in ambito giornalistico, proteste, tra i protagonisti-vittime. Ma nel silenzio della politica. Qualche mosca bianca, naturalmente, ronza nelle aule parlamentari, ma il disinteresse è pressoché assoluto. Né sembra che i media se ne occupino, più di tanto. Non fa notizia, in fondo. Non aumenta le vendite. E mostra una immagine fosca di un paese che il mainstream non può raccontare, in questa epoca di “magnifiche sorti e progressive” sotto la guida di capitan Renzi.

Eppure il mondo del precariato costituisce di per sé la notizia: la sua dimensione, ormai enorme, il ruolo che svolge nelle istituzioni dedite alla ricerca e alla formazione, spesso determinante al loro funzionamento, stride con la mancanza retribuzione, in sintesi estrema, e l’assenza totale di garanzia per l’avvenire. Nello scorso decennio il 93% dei precari, se ne è andato, bruciando i vascelli alle loro spalle, diretti verso altre terre, sempre più ospitali, dove hanno trovato generalmente, quasi sempre, miglior fortuna, e non di rado ottima sorte. Altri hanno mollato cercando un qualsiasi impiego, pure irregolare, in nero, sottopagato, e dequalificato. I più fortunati, hanno chiesto di nuovo aiuto alla famiglia di origine, e naturalmente un fido bancario, per aprire un’attività in proprio. Con quali prospettive, non si sa.

Ma tutto è meglio che la vana attesa. Stando ai dati di una inchiesta della Cgil-Flc, appena resi pubblici, la maggioranza dei precari del settore “Ricerca e università”, alla domanda come immagini il tuo futuro fra dieci anni, risponde: «Non riesco a immaginare un futuro professionale». E, badando a tutto l’insieme della precarietà, come dimensione esistenziale del precariato come dimensione lavorativa, possiamo tranquillamente accorciare la frase: «Non riesco a immaginare un futuro».

Una risposta che dovrebbe allarmare, se non ne fosse a conoscenza, l’intero ceto politico, e indurlo a fare di questo tema, come si dice, una priorità. Difficile credere che possa accadere. Forse, allora, occorre dare non soltanto una scossa, dal basso, sia pur vigorosa, del tipo sciopero generale, finalmente dichiarato (rimarrà l’onta sulla Cisl, di essersi dissociata), ma un segnale al governo, di quelli che durano, come un blocco totale di ogni attività, ad oltranza. Insomma, non la battaglia di un giorno, ma cominciare una guerra di lungo periodo, resistendo ai ricatti e alle lusinghe: cosa ha da perdere chi non ha nulla? E cosa ha da guadagnare quando nulla è in palio?

Occorrerebbe, insomma, che tutti i giovani che vivono tale condizione non si limitassero a levare i pugni al cielo, gridando forte la loro sacrosanta indignazione; ma che traducessero rabbia e frustrazione in azione “coordinata e continuativa”, proprio come quelle forme di lavoro che oggi sono scomparse, nella precarietà eretta a sistema. Occorrerebbe insomma, che rispondessero adeguatamente alla guerra che l’intera classe politica ha scatenato contro di loro, consapevoli che quella guerra sta falciando la loro generazione. Stiamo celebrando il centenario della Grande Guerra, quella che un secolo fa, falciò “la meglio gioventù”: oggi non c’è bisogno di bombarde e cannoni, per distruggere i giovani. Oggi bastano le politiche governative, di destra e di “sinistra”. Se la politica tace, se l’informazione se ne infischia, se i titolari di cattedra universitaria e di istituto di ricerca pensano (salvo rarissime eccezioni), ai fatti loro, chi, se non i giovani, spesso ormai ex giovani, dovrà farsi sentire? Mi permetto di dare loro un suggerimento: i precari della ricerca, rompano le barriere, stringano alleanze con tutti gli altri precari del lavoro non intellettuale. Vadano a scuola dalla classe operaia, si sarebbe detto un tempo. Oggi, azzardo: si fondano nel più vasto esercito delle classi subalterne. E provino a scrivere essi stessi la storia del tempo presente: la propria, ma insieme quella di tutti coloro che sono finiti sotto la macchina schiacciasassi del poco virtuoso neoliberismo. Naturalmente sotto il provvidenziale ombrello della crisi.