In occasione di una delle sue prime mostre alla Galleria Il Punto diretta da Gian Enzo Sperone, Aldo Mondino aveva esposto una serie di opere quadrettate sul modello dei vecchi abbecedari o degli album da colorare. Ogni quadro possedeva una scatola di pastelli o di acquerelli che i visitatori potevano usare, per giocare con le stesse opere. Giocare: categoria-chiave per capire Mondino e per capire perché un artista come lui a oltre cinquant’anni da quella mostra e a undici dalla morte continui a sorprendere e divertire. Sorpresi e divertiti si esce infatti dal labirintico omaggio che Genova ha voluto dedicargli con le due intriganti mostre a Villa Croce e al Palazzo della Meridiana, alle quali si aggiungono una serie di opere disseminate in luoghi topici della città. A Villa Croce, nel contesto fascinoso dell’edificio un po’ delabré, con la luce del mare che si rovescia generosamente dentro le stanze, il percorso si concentra in particolare sui primi anni (ci sono anche quei suoi Quadri a quadretti). Al Palazzo della Meridiana, tra sale volutamente sigillate e silenziose, troviamo invece il Mondino ammaliato dall’Oriente, che acquieta le sue ansie sulle corde di una mistica libera e senza etichette.
Moderno, postmoderno, contemporaneo è il titolo che è stato dato alla mostra (a cura di Ilaria Bonacossa in collaborazione con l’Archivio Mondino, sino all’8 gennaio); Mondino in effetti è un artista fluido, che sguscia via da chiunque voglia assegnargli delle appartenenze troppo strette, non perché pretenda un posto tutto per sé, ma perché in lui vince sempre un istinto per l’ubiquità. Mondino è uno che sta sempre al gioco; il gioco comporta poi che l’artista associ ogni volta, con poetica e intelligente libertà, il tema nel quale si trova risucchiato a una tecnica inedita e quasi onomatopeica. Così i cioccolatini Peyrano con le loro carte dai colori argentati fanno da tessere per il mosaico Byzantine World, opera del 1999: una grande cattedrale della cui luce Mondino s’imbeve. Del 1972 è invece Delicatessen, un nudo di donna che lecca il proprio corpo, dipinto con lo zucchero: corto-circuito finissimo, che sprigiona una sensualità libera e per nulla volgare. C’è zucchero anche nella pasta morbida dei panetti di marshmallow con cui Mondino compone invece le pareti e la pavimentazione di una piscina: se davvero ci si potesse tuffare, si nuoterebbe come in un dolce liquido amniotico (opera del 1982). Anche quando dipinge Mondino gioca a dipingere: non è un caso che si inventi un supporto su misura come il linoleum, sul quale il colore può danzare liscio e senza impuntature. Non poteva esserci supporto migliore per la lunga serie dei suoi Dervisci, che roteano nei coni bianchi delle loro vesti, quasi proliferando e riproducendosi all’infinito, in formazione di gruppo o anche in singolo. Alla Biennale del 1993, quando li presentò, Mondino invitò anche un gruppo di veri Dervisci di Konia a danzare: sembrava scivolassero fuori dai suoi linoleum… Oggi li si incontrano al Palazzo della Meridiana, dove, quasi per contrappasso, sono affiancati a due magnifiche sculture di Turbanti, sorprendentemente in bronzo: altro gioco sapiente e divertito di contrasti.
Al Mondino ubiquo piace poi andare ad insediarsi nell’anima di altri artisti, ai quali arriva non tanto per affinità culturale ma sospinto da uno spirito fraterno. C’è il Derain del primo collage (scomparso) della storia dell’arte moderna; torna a ripetizione su Casorati, torinese come lui, reso logo di se stesso; c’è l’Alighiero Boetti del bellissimo trittico Essaouira 94, dipinto nel 2004 a dieci anni dalla morte dell’amico, dove le virgole boettiane in libera uscita hanno preso il volo in forma di gabbiani.
Il gioco a volte è anche linguistico: Mon Dine è un quadro bellissimo del 1992 che si incontra in cima alle scale di Villa Croce. Il titolo può essere letto come il cognome Mondino francesizzato ma anche come omaggio e insieme parodia di Jim Dine, protagonista della seconda pop art americana. Vestito con una vistosa vestaglia rossa, sottratta all’armamentario iconografico di Dine, Mondino si presenta con l’aria di uno che è lì solo di passaggio. Per ribadire che la pittura è fluida e non ha più luogo; o meglio il suo luogo è un altrove: forse quell’altrove dove roteano i suoi dervisci.