La storia del mondo classico abitua certo a guardare i fenomeni sulla distanza, ma insegna anche, oltre alla cura di dettagli e contesti, a far interagire con l’oggetto di studio talune urgenze del presente. Un grande storico come Arnaldo Momigliano (1908-’87) praticava queste vie a livelli molto alti, e sulla distanza lo si nota ancor meglio. Torna ora disponibile il suo Saggezza straniera L’Ellenismo e le altre culture (Einaudi «Piccola Biblioteca. Storia», pp. XVI-232, € 21,00). Il libro deriva da cicli di conferenze del 1973-’74: fu pubblicato in inglese nel ’75, tradotto in tedesco nel ’79, in italiano nel 1980 (a cura di Maria Luisa Bassi), con l’aggiunta in appendice di un saggio importante. Fu quindi variamente ristampato, ma poi da tempo era rimasto indisponibile. Il volume si occupa dei modi in cui si realizzò l’interazione tra i greci e le altre culture in età ellenistica e romana: il taglio risulta più chiaro nel sottotitolo originale, The limits of hellenization. Il tema è quindi di piena attualità, ma certo ha subito importanti rivalutazioni e correzioni di approccio nei decenni successivi all’ideazione del libro: il quale merita pienamente di ritornare all’attenzione, nonostante anche le stagioni degli studi siano molto mutate – come osserva Francesca Gazzano nella prefazione –, e non sempre in meglio. Il testo, comprensibilmente, non è stato ritoccato. L’aggiornamento bibliografico è affidato a una ragionata appendice, a cura di Omar Coloru.
Per indagare il proprio tema, Momigliano affrontò una massa imponente di dati e di ricerca moderna: poteva farlo, poiché dominava gli uni e l’altra con signorile sprezzatura, dissimulando l’erudizione sotto asserzioni talora ironiche, non sempre bonarie. Il discorso, come si conviene a un’opera concepita per un pubblico anglosassone, è impostato in forma chiara e steso in forma ben leggibile, anche se è dotto, e tale da presupporre competenze molto ampie nei destinatari. In una serie di brevi capitoli Momigliano discute le interazioni della grecità con i Celti, gli Ebrei, i Romani, gli Iranici. Evidenti le assenze, discusse anche dai primi recensori: l’India, l’Egitto, l’Arabia, la Mesopotamia, il mondo punico. Lacune della documentazione spiegano queste scelte. Il libro non cercava la completezza, sì la comprensione dei fenomeni di interazione tra i greci e altre culture prossime, e anche tra la cultura giudaica e la grecità. L’analisi prende spunto non dalle evidenze della cultura materiale (quelle che erano al centro, per dire, delle indagini di Mihail Rostovcev) bensì dalle indagini di storici e geografi, dai pensieri degli intellettuali. E un ruolo centrale è assegnato alla conoscenza delle lingue. È rimasto celebre il passo del libro relativo all’orgoglioso monolinguismo dei greci in età ellenistica: una scelta che costò loro uno svantaggio notevole, rispetto a quanto altri facevano a Cartagine, o a Roma. Certo, tale attitudine, stigmatizzata da Momigliano, interessava gruppi ristretti ma influenti: perciò capitava che uno storico greco non fosse in grado di verificare i dati che gli pervenivano sugli «alloglotti», dovendosi limitare a quanto gli era accessibile in greco (e nei libri). Perciò in alcuni casi lo sguardo intellettuale su popoli anche vicini rimase singolarmente opaco, condizionato da pregiudizi o da idealizzazioni, e in entrambi i casi remoto dalla realtà. La serrata argomentazione di Momigliano prende toni talora apodittici (i greci «non tentarono mai minimamente di conoscere» i loro vicini) che possono apparire oggi estremizzati: ma lo studio riguarda politica e letteratura, insomma le sfere intellettuali, non le quotidiane interazioni tra le persone. In un mondo vario e mobile come quello ellenistico evidentemente non mancarono ibridazioni linguistiche, culturali e religiose, assai più sfaccettate rispetto a quanto veniva registrato dalla cultura alta. Tali «limiti» della cultura greca derivavano da attitudini greche talora radicate nel tempo. Benché stanziati per secoli a Marsiglia, i greci forse non cercarono, certo non trasmisero, molte informazioni sui celti dell’interno. Si dovette aspettare l’ellenismo perché gli etnografi, forse su impulso romano, cercassero di capire come funzionava la società della Gallia. Eppure a quel tempo le tribù celtiche migranti erano già comparse in Italia, in Grecia e in Asia Minore.
In altri casi l’atteggiamento mutò. Nei confronti della cultura iranica, la «colpa» dei greci portò i loro intellettuali a non conservare l’iniziale curiosità verso la Persia, lasciando spazio a discorsi stereotipati e limitati, che non giovarono alla comprensione delle dinamiche dell’area. Nel caso di Roma, la scarsa disponibilità greca verso le culture dell’occidente mediterraneo generò errori di percezione notevoli, durati fino all’età della conquista, e oltre. Polibio, che pure fu a contatto con le più alte personalità della società e della politica romana, non ne capì in profondità i meccanismi; Posidonio, forse il più aperto interprete greco dei mondi «altri», non diede importanza agli influssi greci su Roma. Solo in pochi casi è possibile delineare il percorso opposto. A parte i romani, e in modo differente i giudei, non si sa oggi che cosa la cultura cartaginese, o celtica, pensasse dei greci. L’interesse dell’ebraismo ellenistico rispetto al tema è ovvio. Ma in questo campo ogni aspetto è controverso, e il dibattito acceso: una sfida affrontata nel libro con piena consapevolezza. La rivolta del Maccabei nasceva o no da un «eccesso di ellenizzazione» che portava verso il rifiuto dei precetti? Era culturale o politico il problema del rapporto dei giudei con i greci? E quale sarebbe stata, poi, la posizione corretta rispetto al governo romano? Si coglie nelle densissime prese di posizione di Momigliano l’influsso di un percorso personale e intellettuale.
Ciò ha certo influito sul taglio del volume, che per alcuni aspetti è il maturo sviluppo di ricerche sul giudaismo e sull’ellenismo condotte negli anni trenta, prima della guerra e dell’esilio. Ma con importanti differenze. Nuove fonti e nuove domande derivarono dalla «sprovincializzazione» dell’autore e dall’affrancamento degli studi sul mondo classico dal predominio della scienza tedesca. L’orizzonte di Momigliano, comunque, rimase saldamente eurocentrico. Meno si avvertono nel libro gli effetti della decolonizzazione politica, e del profondo ripensamento del mondo ellenistico, nel rapporto tre ovest e est, tra Europa e Asia (e Africa). Ecco così che gli editti del re Asoka, pur discussi, non sollevano alate parole terzomondiste. Il presente agiva su Momigliano in altro modo: negli acuti e partecipati suoi capitoli sul giudaismo, si colgono le preoccupazioni causate dalla guerra del Kippur (ottobre 1973). È il percorso che porterà Momigliano prima a un importante saggio su Flavio Giuseppe (’79), poi alla sintesi estrema delle Pagine ebraiche (’87).
Rileggere il libro a distanza serve anche a valutarne la «ricezione».