A fine giornata, il barometro delle tensioni grilline segna un parziale abbassamento della tensione. Questo almeno è quello che lasciano trapelare i governisti, che contano che il dissenso si assottigli. I più ottimisti parlano di una decina di deputati e di altrettanti senatori. Gli altri dovrebbero almen o evitare di presentarsi in aula al momento del voto.
Questo prosciugamento dei malumori sarebbe l’effetto di diversi fattori. Intanto, che agli eletti è stata data rassicurazione del fatto che l’ingresso in maggioranza e il voto della fiducia non rappresenta una cambiale in bianco. I grillini assicurano di essere consapevoli del fatto che «questo non è il governo Conte» e che la linea Maginot dell’esecutivo precedente va difesa metro dopo metro. «Per questo chi indebolisce l’unità interna mette a repentaglio i nostri obiettivi» è il ragionamento dei 5 Stelle. Che però rifiutano l’idea, circolata nelle ultime ore, di sottoporre il governo a un «tagliando» sui temi a settembre. «Sembrerebbe una fiducia condizionata – dicono dalla cabina di regia – E soprattutto rischierebbe di innescare con altre forze politiche una gara a chi pone più ultimatum».

Proprio facendo affidamento sulla forza attrattiva di Conte, ieri a Palazzo Madama si è costituito l’intergruppo fra M5s, Pd e LeU «che promuova iniziative comuni sulle grandi sfide del Paese». Non è un caso che avvenga al senato, dove fino a ieri mattinata si temeva che le obiezioni di coscienza al governo Draghi fossero più estere. C’è poi la questione del voto su Rousseau: «Gli iscritti si sono espressi per l’appoggio a Draghi – dicono dal M5S – Anche con l’astensione si rischia l’espulsione perché non si rispetterebbe la volontà della base». Questo è l’ulteriore elemento: la linea di mediazione dell’astensione dal voto, che era stata proposta da Davide Casaleggio al fine di mantenere la coesione, non viene neanche presa in considerazione.

Sembrerebbe un segnale di rottura e invece tutto ciò ha un peso non indifferente. Perché quasi nessuno dei dissidenti di peso ha intenzione di fornire un alibi per farsi sbattere fuori dal Movimento 5 Stelle. L’esperienza degli ultimi anni, insieme al fatto che Alessandro Di Battista ha fatto capire di non avere alcuna intenzione di imbarcarsi in un nuovo soggetto politico, hanno piuttosto consigliato a senatori come Barbara Lezzi e Nicola Morra di puntare all’elezione della leadership collegiale (la cui istituzione viene ratificata oggi dagli iscritti) per ripartire alla conquista del M5S. È da leggersi in questa prospettiva l’appello firmato da una settantina di iscritti, tra i quali diversi parlamentari e consiglieri regionali, che invita «all’immediata apertura di una discussione su Rousseau sul ruolo del Movimento 5 Stelle nel governo Draghi». Il documento punta l’indice anche contro le «responsabilità personali dell’attuale capo politico pro tempore» Vito Crimi «e del Comitato di Garanzia», colpevoli di avere avallato la «consultazione ingannevole» a proposito del via libera al governo.

Tra le richieste c’è l’«immediato sollevamento dagli incarichi» degli attuali dirigenti e la richiesta di non espellere chi voterà in difformità dalle indicazioni dei vertici. Anche se si continua a rivendicare la nullità della consultazione su Rousseau non si tratta di una tattica «alla Trump», di pura rimozione del risultato. Piuttosto si tratta dell’articolazione di richieste che puntano a cambiare gli assetti del M5S e aprire spazi di manovra di fronte al malcontento della base nei confronti dei reggenti. E però nell’ottica di una convivenza. Il che, di questi tempi, non è affatto poco.