Lievitare, fermentare, mutare forma nel passaggio da uno stato all’altro; evocazioni di gusti e sapori attraverso l’immediatezza di un odore, di un profumo che riconnette il passato al momento presente. Può essere il ricordo di una mancanza veicolato dalle memorie d’infanzia, come il profumo del tè che si sprigiona nel bricco con l’acqua bollente quando vengono versate le foglie di tè (nelle prime pagine di La gabbia d’oro di Shirin Ebadi) o quello del ciambellone appena sfornato che conosciamo un po’ tutti.

Associabile ad una comfort zone, il cibo ha significati precisi nei riti sacri e profani. Nel rituale consolatorio della morte ancora oggi nell’Italia del Sud si portano zucchero e caffè durante la veglia funebre; in Sardegna si plasmano dolci-gioiello e pani per celebrare le nozze. Mio nonno Vito, che era del Cilento, per la Domenica delle Palme ci faceva fare le palme di confetti rosa e celesti con il fil di ferro ricoperto di carta velina verde.

Chiunque, ovunque nel mondo, ha ricordi che hanno a che fare con il cibo. Ricordi di viaggio, famiglia, amicizia, amore e dolore: le rugolah che preparava Esther, migrate con la loro fragranza di cannella dalla Polonia alla Florida, passando per la Germania tra pogrom e campi di concentramento nazisti, o magari il dhal offerto sul chapati a chiunque voglia condividere il cibo cucinato dai Sikh nella cucina comune (langar) nel Tempio d’Oro ad Amritsar. Dal personale al collettivo gli alimenti sono un territorio di condivisione di esperienze, ma talvolta anche di «giochi» di potere come il falafel mediorientale rivendicato come pietanza nazionale da palestinesi e israeliani.

Intorno alla riflessione sul cibo in rapporto all’identità («Food is identity») e alla relazione uomo/ambiente si sviluppa la II edizione di Yeast Photo Festival 2023 («yeast» in inglese vuol dire lievito), organizzata dalle associazioni culturali Besafe e Onthemove con la direzione di Veronica Nicolardi e Flavio & Frank e la direzione artistica di Edda Fahrenhorst (in partnership con Fotofestival Lenzburg), nel borgo salentino di Matino, estendendosi grazie alla collaborazione con ArtWork al chiostro del Palazzo dell’antico Seminario di Lecce con Grandmothers on the Edge of Heaven dell’ucraina Elena Subach (fino al 12 novembre).

Il tema Soulfood. And Beyond. è stato affrontato da autrici e autori internazionali, tra cui Lys Arango, Lars Borges & Luzie Kurth, Niall McDiarmid, Mario Wezel, Dougie Wallace, Maria Giovanna Giugliano, Olaf Breuning nelle 12 mostre (incluso Matino Family Album) allestite in luoghi fortemente connotati – da Palazzo Marchesi Del Tufo al frantoio ipogeo, fino alla Masseria Le Stanzie nella campagna di Supersano-Cutrofiano – con un programma di talk e concerti che nelle giornate inaugurali ha visto la partecipazione del dj Claudio Cavallo e dello chef Alessandro Borghese. Per Tereza Jobová (Eat Out of the Box) il cibo è l’occasione per sfiorare una dimensione surreale in cui c’è il tentativo del controllo della morte. Un lavoro in cui sono citati il regista e animatore Jan Švankmajer (con la sua ossessione per lo skubanky, dolce tipico ceco a base di patate bollite, farina, semi di papavero e zucchero) e Yorgos Lanthimos.

Sempre nella distilleria De Luca, Matthieu Nicol propone una selezione di foto d’archivio degli anni ’60-’70 (patinate e glamour) provenienti dalla Natick Soldier Systems Center Photographic Collection che attraverso il linguaggio pubblicitario documenta le vere ricerche elaborate in laboratorio da dietologi per la preparazione di pietanze inverosimili (pollo liquido in tubo, pane in lattina) al fine di migliorare la qualità dell’alimentazione dei militari dell’esercito USA in situazioni e contesti diversi.

Sempre negli Stati Uniti si colloca il lavoro di Henry Hargreaves No seconds, esposto nella macelleria Ex Nau, con la rappresentazione dell’ultimo pasto concesso ai detenuti (secondo i loro desiderata) prima dell’esecuzione della condanna a morte. Quanto alle meravigliose «nonne» (tesoro nazionale Unesco) dell’isola di Jeju (Sud Corea), sfidano la morte immergendosi in apnea nelle acque profonde per raccogliere perle e polpi: come in una capsula del tempo quelle Grandma Divers ritratte in bianco e nero da Alain Schroeder fanno riemergere il ricordo delle protagoniste Ama delle foto scattate da Fosco Maraini nelle isole di Hèkura e Mikuriya in Giappone (il libro L’isola delle pescatrici è del 1960).

A chiudere il cerchio è The Last Supper con le opere commissionate dal festival a Damaris Betancourt, Moira Ricci, Jan von Holleben, Paolo Woods & Gabriele Galimberti, Johanna Maria Fritz e Cortis & Sonderegger invitati ad interpretare il tema dell’Ultima Cena. Con l’ironia che ne contraddistingue la poetica, Woods/Galimberti ritraendo i maiali che mangiano nel terreno ci ricordano che quello che per qualcuno è l’ultimo pasto sarà il pasto successivo per qualcun altro. Dalla metafora al fatto il passo è breve.

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Where The Sky Is Closer (2023) è il capitolo conclusivo della serie che Moira Ricci (Orbetello 1977, vive e lavora tra Milano, Rimini e la Maremma) ha concepito come un saluto alla sua terra, il commiato di chi osserva l’irreversibile allontanamento dell’uomo dalla natura e dal mondo contadino. Nell’ambito del progetto The Last Supper, commissionato da Yeast Photo Festival 2023, l’artista ha realizzato tre opere ricorrendo all’intelligenza artificiale, «nutrendo» il programma di generazione di immagini con le fotografie scattate da lei che mostrano i contadini riuniti per l’ultima cena in un paesaggio desolato.

L’evoluzione «naturale» di «Where The Sky Is Closer» vede l’impiego dell’intelligenza artificiale…

Ho iniziato Dove il cielo è più vicino nel 2014. Per la mostra alla Tenuta dello Scompiglio a Lucca, nel 2015, avevo fatto tre pezzi con il diavolo mietitore, il podere e la trebbia-astronave. Avrei voluto anche rappresentare i contadini, ma non era stato possibile per motivi di budget e spazio. Quando, la scorsa estate, sono stata invitata da Yeast Photo Festival a realizzare un lavoro per The Last Supper ho pensato a questo progetto perché era un non finito, qualcosa rimasto un po’ sospeso. Il tema del fallimento è rappresentato anche dall’astronave che non vola. Non si sa dove andremo a finire con la fine del mondo contadino e quella lontananza, sempre più grande, dell’uomo dalla natura. Quindi, ho pensato a qualcosa di apocalittico con i contadini che tentano sempre di costruire delle astronavi per partire ma non partono mai, circondati da terreni senza coltivazioni e cieli desolati. Mi sono rivolta all’intelligenza artificiale perché non avevo molto tempo, però ho fatto molte riflessioni. Intanto, gli ho dato in pasto le mie foto dell’astronave, dei contadini, dei poderi. Mi sembrava un’ultima cena anche per me (sorride)! L’intelligenza artificiale va guidata, se si mettono solo dei prompt il risultato è molto «fumettoso» e fake.

Il rapporto realtà/finzione è un po’ la tua matrice stilistica e poetica, pensando soprattutto a 20.12.53-10.08.04 (il libro è uscito nel 2023 con Corraini) in cui affronti il tema della memoria, inserendo le foto di te stessa all’interno dell’album di famiglia…

La finzione, nel mio lavoro, è un modo per raccontare la mia realtà. In questo lavoro su mia mamma del 2004, volevo entrare nelle sue foto per poter parlare con lei, dirle cosa le sarebbe successo nel futuro. Nell’elaborazione del lutto avrei voluto tantissimo poter tornare indietro. Nei video era più difficile, l’ho fatto nelle foto. All’epoca non sapevo neanche usare Photoshop. Ero ancora studente all’Accademia di Belle Arti di Brera, mi sarei dovuta laureare nel 2004 ma l’ho fatto l’anno dopo perché mia mamma era morta e non riuscivo a studiare. Già dal funerale mi sono accorta che avevo bisogno di «entrare» nelle sue foto. Poi quelle immagini sono diventate un documento «reale» anche per me. Rivederle adesso senza la mia presenza mi sembrano quasi un corpo senza un arto