Mohammed al Qiq soffre terribilmente, accusa dolori lancinanti in ogni parte del suo corpo, sempre più debole, e potrebbe cessare di vivere nel giro di pochi giorni, forse di ore. I filmati che girano in rete mostrano il giornalista palestinese, arrestato lo scorso 21 novembre in Cisgiordania dai soldati israeliani e da allora in detenzione amministrativa (senza processo), che si muove appena e lancia un lamento straziante. Al Qiq, 33 anni, corrispondente dalla Palestina per la tv saudita al Majd, è poco più di uno scheletro. Ha perduto circa 30 kg ma non si arrende, non ha alcuna intenzione di interrompere lo sciopero della fame che porta avanti dal 24 novembre. Chiede la revoca immediata dell’ordine di detenzione amministrativa. Sua moglie, la famiglia, gli amici, pur temendo per lui e la sua vita, non si oppongono alla lotta che sta portando avanti, anzi la sostengono sino in fondo. Ripetono che «Mohammed non ha fatto nulla di male, altrimenti gli israeliani non lo avrebbero condannato alla detenzione senza processo». A sostegno del giornalista da giorni si svolgono cortei e sit in nelle città palestinesi, la sua immagine è ovunque, i media locali e i social rifericono aggiornamenti continui sulle sue condizioni. Per al Qiq manifestano anche decine di attivisti israeliani e due di loro, Anat Rimon e Anat Lev, hanno cominciato nei giorni scorsi uno sciopero della fame.

I servizi segreti israeliani, senza avere nulla di concreto in mano, hanno chiesto e ottenuto dai giudici l’arresto e il carcere per sei mesi (rinnovabili) per al Qiq, perchè, affermano, sarebbe un simpatizzante del movimento islamico Hamas. Il tribunale militare di Ofer ha respinto più volte la richiesta di scarcerazione perchè il reporter «istigherebbe alla violenza». Al Qiq, uno degli oltre 600 palestinesi al momento in detenzione amministrativa, ha risposto alle accuse con una lettera nella quale scrive che i giornalisti palestinesi stanno sperimentando sulla loro pelle la repressione perchè «sono la voce della coscienza umana, perchè mostrano i crimini e le pratiche oppressive dell’occupazione israeliana».

Ieri Al Qiq ha respinto la decisione dei giudici israeliani che, in parziale accoglimento dell’appello presentato dal suo avvocato Jawad Boulos, gli avevano offerto il trasferimento dall’ospedale israeliano dove è ricoverato all’ospedale palestinese Makassed a Gerusalemme Est. Al Qiq ha detto di no, vuole andare in un ospedale in Cisgiordania dove avrebbe vicino la sua famiglia e, più di tutto, non sarebbe sorvegliato dalla polizia israeliana. «Mohammed è un uomo molto forte, una persona dalla volontà eccezionale. Lotta contro una grave ingiustizia e non farà passi indietro», spiega l’avvocato Boulos. «Per al Qiq non vi è alcuna differenza tra l’ospedale HaEmek di Afula e l’ospedale al-Makassed» aggiunge da parte sua Ahmad Abu Mohammad, della Società dei Prigioneri Politici, «anche a Gerusalemme avrebbe due o tre soldati accanto al suo letto. Sarebbe esattamente lo stesso».

I medici avvertono che Mohammed al Qiq è vicino alla morte e, nel migliore dei casi, potrebbe subire danni irreversibili. Il mese scorso è stato il primo detenuto palestinese in sciopero della fame ad essere sottoposto contro la sua volontà a un trattamento medico, ha denunciato la Ong israeliana “Medici per i Diritti Umani” (MDU). Non è stato costretto a mangiare ma gli sono state trasfuse vitamine contro la sua volontà. È la prima volta, da quando la scorsa estate la Knesset ha dato il via libera all’alimentazione forzata dei prigionieri politici, che medici israeliani, violando l’etica professionale e i diritti dei pazienti, usano la forza contro un detenuto in sciopero della fame. «Mohamed al Qiq è stato tenuto fermo dalle guardie mentre lo staff medico praticava l’iniezione. Per quattro giorni è rimasto legato al letto, attaccato alla flebo mentre chiedeva invano che venisse rimossa», aveva riferito Lital Grossman di MDU. E’ stata una violazione del diritto internazionale e di varie dichiarazioni sottoscritte anche da Israele, che vietano di fare pressioni per interrompere uno sciopero della fame. Croce Rossa, Onu e Associazione Medica Mondiale considerano l’alimentazione forzata un trattamento crudele e disumano, vicino alla tortura.