La recente edizione in volume, a cura di Rodolfo Zucco, di Tutte le poesie di Fernando Bandini, che comprende anche vari poemetti in latino raccolti da plaquettes disperse (Mondadori «Oscar Baobab Moderni», introduzione di Gian Luigi Beccaria, con un saggio biografico di Lorenzo Renzi, pp. LIV-720, euro 28,00) e adesso quella a cura di Leopoldo Gamberale di altri sette poemetti totalmente inediti (Memoris munus amoris, introduzione, traduzione, note ai testi di L. G., Edizioni San Marco dei Giustiniani Genova, pp. 138, euro 22,00) ci impongono di ripensare l’importanza della poesia in latino nella pratica di un poeta che ha sempre guardato come «lingue morte» sia il latino sia il suo proprio dialetto nativo, al quale anche si è pure accostato. Ma ora alla luce di queste nuove acquisizioni filologiche e degli scavi fatti da una serie di studiosi, taluni anche classicisti, bisogna forse rivedere il giudizio circa la marginalità della sua esperienza latina nel percorso essenzialmente italiano e lirico della sua poetica.
E certamente Bandini non ha mai cessato di difendere la sua scelta operativa che vedeva nel latino non una operazione epigonica, ma, come egli dice in un suo illuminante scritto Scrivere poesia in latino oggi (1999), «il sigillo di una qualche forma o realizzazione, sia pure paradossale, della propria modernità». In questa direzione egli si muove, seguendo il modello per lui impareggiabile del Pascoli neolatino, in cui era visibile una consonanza e continuità certa tra il poeta italiano e la rimodulazione classicistica della sua poetica ‘diminutiva’ del fanciullino. Del resto Bandini aveva avuto buone istituzioni di latino in una scuola di preti; ma lo stimolo maggiore gli era venuto dalla ricerca di una via di fuga dallo sperimentalismo imperante negli anni Sessanta, quando egli muoveva i suoi primi passi come autore e la neo-avanguardia tentava (corifeo Sanguineti) di uscire dagli impacci di una crisi in cui si dibatteva allora la poesia (e la letteratura) in Italia e anche Zanzotto faceva le sue prime prove solitarie di innovazione e rottura linguistica proprio partendo dal latino con Vocativo (1957).

Un’epistola in esametri a Zanzotto
Proprio con Zanzotto Bandini rivendicava la sua passione per il latino, facendolo destinatario di una Epistula in esametri (del 1971) che ha l’intento di una vera e propria ars poetica, sulla traccia dell’epistola oraziana ad Pisones. Il testo, benché non del tutto risolto, è stato recuperato, edito e liberamente tradotto da Gianni Pellizzari (in Tutte le poesie, pp. 394-404); rappresenta un vero e proprio manifesto apologetico dell’impiego del latino: «Et cum mirificos videor tibi carpere flores, / tum quasi praeteritum dicas me quaerere tempus; / quin laetus densas aevorum mersor in umbras / haec ubi verba velut tremulae lampyrides ardent / huc illuc nantes tenui per inane volatu: / illis, ut caelum stellis, scatet alta vorago / annorum». («E come mi vedi perdermi dietro fiori perduti / così un istinto di morte ti parrà il mio latino. / Ma io, in queste ombre fitte di secoli, con che voluttà mi ci immergo, / in traccia di parole, come baluginio di lucciole erranti nel buio; / o stelle, sperse nel tempo, per gli abissi / del cielo»).
Ma è con il 1965 che Bandini inizia l’avventura del latino, vincendo il Certamen promosso dall’Accademia Reale d’Olanda e avendo in quella sede le sue prime affermazioni; in seguito, con la cessazione di quel premio (1977), Bandini rivolgerà la sua attenzione al Certamen Vaticanum e al Certamen Capitolinum, ottenendo anche in quelle sedi prestigiose vittorie e segnalazioni, con poemetti sempre più complessi, in cui con effusione espansiva egli riuscirà a concretizzare anche una sua vocazione più latamente narrativa. E in più la sua poesia latina si è andata specializzando via via verso tematiche sincretiche, rappresentative del mito, nelle sue implicazioni allegoriche ma anche religiose, toccando spesso temi sacri, biblici ed evangelici, con particolare predilezione per la mistica del Natale, l’attesa ansiosa della nascita di Cristo, la celebrazione di alcune scadenze liturgiche e celebrazioni di santi. Insomma il laico Bandini ha riservato alla lingua ieratica della sua giovinezza anche il deposito della sua anima religiosa, il sedimento di una cultura sacra millenaria, nella quale tuttavia ha cercato di innestare i semi di una modernità non artificiale (è nota la sua avversione a un latino lessicalmente costruito a tavolino, ricalcato su termini della nostra civiltà consumistica e avveniristica), ma egli non ha neppure rifiutato almeno una volta i termini della nostra evoluzione più spinta, come nel poemetto fantascientifico Mors in spatio (del 2000).
Mors in spatio (Tutte le poesie, pp. 437-47) è la rielaborazione in altro metro (distici elegiaci contro strofe alcaiche) di un precedente poemetto, Astronauta naufragus, in cui il poeta si cimenta in una più approfondita e sofferta visione della propria morte come una sorta di precipizio nel fondo delle galassie, come ritorno insieme al grembo materno e alle braccia di un ignoto/noto nume abitatore dei profondi recessi del cielo. Solo nella seconda versione di questa sua fabula fantascientifica Bandini sembra accedere a quella terminologia inventata, promossa dal Lexicon recentis latinitatis (Libreria Editrice Vaticana 1992-’97), quasi per un atto di compiacenza e condiscendenza (pensilis cella ‘ascensore’, robotum ‘robot’, album ‘schermo’, plectra ‘tasti’, vis radians ‘radioattività’ ecc.).

Due liriche montaliane
Molti sono i componimenti che meriterebbero particolare citazione. Basti qui dire che la poesia latina di Bandini si presenta molto spesso come un controcanto di quella italiana, una sua proiezione all’indietro, come se egli attingesse da un peculio suo proprio conservato in altra moneta, non più corrente, ma aurea, come di un tesoro nascosto. In questo senso a me sembra emblematico il poemetto De adventu senectutis (del 2008; Tutte le poesie, pp.456-462) in trimetri giambici che descrive con tutta evidenza i segnali clinici della perdita della memoria nei vecchi e il loro rifugiarsi nel passato come sacca di ricordi e di passioni. Parimenti per Bandini il latino sembra essere quella preziosa riserva di memoria cui istintivamente ci si aggrappa come ancoraggio remoto contro un’attualità che si fa di giorno in giorno più evanescente: «Sed aliquid en fit, admodum praeposterum; / recentiora prorsus obliviscimur, / longinqua verum meminimus dilucide». («Ma ecco accade qualcosa, del tutto assurdo: / dimentichiamo completamente i fatti più recenti, / ma ricordiamo chiaramente quelli lontani»; trad. di Martina Elice).
Bandini ha anche tradotto, con più che ardua scommessa, due liriche montaliane: La Bufera, e L’anguilla: la prima avendo anche il privilegio di essere inserita nel Quaderno di traduzioni da Montale stesso (1975). Ma nei confronti del suo côté latino egli ha sempre tenuto un profilo modesto e distaccato, esibendo con parsimonia i suoi prodotti e includendone non più di qualche campione al centro delle sue raccolte poetiche maggiori, pubblicate da Garzanti; solo i poemetti più riusciti e compiuti, per cui Sancti duo decembri mensis (dedicato a San Niccolò e Santa Lucia) finirà per dare sì il nome alla raccolta italiana Santi di dicembre (1994), ma stretto in mezzo a una piccola serie di versi in dialetto (le sue lingue morte). Ugualmente Bandini farà con la raccolta Meridiano di Greenwich (’98) che proprio nel suo cuore contiene, tra due liriche in dialetto, quel piccolo gioiello che è il poemetto Psyche, recuperando poi alla fine del libro anche Sacrum hiemale (Festa d’inverno), primo componimento premiato ad Amsterdam, che aveva avuto le attenzioni di Sereni e di Mengaldo. E pure nello stesso modo si comporterà con i poemetti Ramus aureus e De itinere reginae Sabaeae, uno confuso tra gli altri versi italiani, l’altro relegato proprio in fondo alla raccolta Dietro i cancelli e altrove (2007). Ecco perché il volume di Tutte le poesie, che accoglie anche il materiale latino, sedimentatosi in sedi occasionali e non facilmente raggiungibili, ha il valore per gli estimatori del poeta di un graditissimo dono.
Una novità assoluta sono invece i testi che rintraccia e mette insieme Gamberale, perché frutti di ricerche d’archivio e di esplorazione assidua delle «Carte Bandini», custodite per lo più nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza. Con perizia filologica e raro amore per il suo oggetto, Gamberale riesce a riportare alla luce e a ricostruire una ricca e preziosa messe di poemetti che non avevano avuto l’ultima rifinitura del poeta ma che certamente non sono da meno rispetto a quelli conosciuti. Ci siamo dunque imbattuti nella massa di un iceberg che, per quanto presupposta, non si poteva considerare di tali dimensioni.
Così ora possiamo leggere Alcedonia (I giorni degli alcioni), il ritorno di un uomo al paese di mare, dove sbocciò un suo rimpianto amore di gioventù; Endymion (Endimione), una rivisitazione del mito del giovane amato dalla Luna; Mors volucrum (La morte degli uccelli), una angosciosa metafora che sulla paventata morte degli uccelli riflette la paura dell’estinzione anche dell’uomo; Portus Lunae (Il porto di Luni), una meditazione sulle rovine di Luni legata al tema dell’ubi sunt, cui si innesta il ricordo del padre; Astronauta naufragus (L’astronauta naufrago), già menzionato; Feria sexta in Parasceve (Venerdì santo), una visione rievocativa della madre ai tempi dell’infanzia in prossimità della Pasqua; Elegia in memoriam patris (Elegia in ricordo di mio padre), ulteriore compiuta testimonianza sulla figura paterna: «Fors hoc est propriam sensim cognoscere mortem, / est fieri similes ore oculisque patri. / Annos natus erat cum lumina clausit eosdem / quos ego qui dulci nunc quoque luce fruor». («Forse è questo conoscere lentamente la propria morte, è diventar simili al padre nel volto e negli occhi. / Quando si spense aveva gli stessi miei anni / di ora, che vedo ancora la dolce luce»).
La saggezza di Bandini ha sempre la stessa radice, come si legge in Portus Lunae: «Semper adhuc legimus priscorum carmina vatum, / quaerimus ex illis sibi vita velit./ Saepe, nucem nostrae in aetatis fregeris, intus / tu veteris nucleum temporis invenies» («Leggiamo ancora avidamente i carmi degli antichi poeti, / cerchiamo di trarre da loro il senso della vita. / Prova a spaccare la noce dell’epoca nostra, dentro / ci troverai il gheriglio del tempo antico»).