Franco D’Andrea la sorpresa? A ottant’anni e una bella carriera di pianista e leader alle spalle? Strano. Eppure. Subito il suo trio New Things è di grande spicco. La tromba di Mirko Cisilino in melodia ritmica assai curiosa e poi in contrappunto bachiano (ma senza fugato) col piano. Tutto con swing morbido – la scansione viene dalla chitarra di Enrico Terragnoli – e creando un clima cameristico pensoso/gioioso. Però niente di classico: c’è il modernismo del jazz, c’è l’antico del jazz (un po’ di tocchi dixieland), c’è la spregiudicatezza della ricerca contemporanea, estranea a formule e dogmi. Di sicuro è musica nuova. E con Cisilino è nata una stella. Sa di Bubber Miley e di Leo Smith, il suo circuito cuore-sensi-cervello è meraviglioso.

È cool jazz questa musica? Risorto? È un «californiano» nuova maniera, ricordate Shorty Rogers con Pete Jolly nel periodo sperimentale? Macché. È musica intelligente, arguta, rilassata, attentamente studiata. Incredibilmente sorgiva. Per il trio la «nuova cosa» è questa. Anche se la dizione rimanda a ben più aspre stagioni di innovazione, ricordate il free? Qui la novità è una cantabilità non tragica, non tormentata, ma desiderante la serenità. In un brano che inizia in «adagio», introdotto dal pianismo post-tristaniano di D’Andrea, le note tenute della tromba sono la grande bellezza tra Miles e Stravinsky, poi entra lo swing e con quello l’agire in contrappunto, in pratica la ragione di vivere di questi musicisti. I suoni del futuro? Gioia e disincanto? Sono solo domande, anche stupide, che nessuno si azzardi a rispondere. D’Andrea si conferma nel piano solo? No. Costeggia Monk e Ellington senza feeling. La grande idea del trio svanisce.

IL FESTIVAL Ai confini tra Sardegna e jazz, trentacinquesima edizione, va avanti nonostante tutto. Falcidiato dalle defezioni per paura del Covid 19. Il terrorismo mediatico sul tema del virus ha ottenuto lo scopo della rinuncia di Mats Gustafsson e di tutti i suoi compagni scandinavi. Mezzo cartellone cancellato. Gustafsson doveva essere il protagonista, il perno centrale. Altri vedono di fare egemonia al suo posto. Certo ci riesce, almeno per una sera, Anthony Joseph. Nascita caraibica, residenza inglese, poeta, romanziere, insegnante di scrittura creativa. Musicista eccelso, anche se di lui si dice che mette in musica le sue poesie e basta. E basta? Ascoltiamolo in concerto nell’anfiteatro di Piazza del Nuraghe a Sant’Anna Arresi.

Antony Joseph Sabata, foto di Luciano Rossetti

L’avvio è in modalità ultra-free col sax contralto di Jason Yarde in primo piano. Grande improvvisatore, già partner di Louis Moholo-Moholo. Ma è solo l’inizio, è solo uno sferzante e siderale preludio. Poi si parte su un tempo diciamo funky, basso e chitarra nella luminosa norma di una musica metropolitana con sapori d’Africa. Il cantante Joseph sfoggia il suo avvincente sprechgesang molto vicino al declamato. Il rito è trascinante. Sensi accesi, gli intermezzi e i controcanti dei due sax funzionano a meraviglia, la temperatura sale, la bravura dei musici è tanta. Quando il tempo si fa più lento si sente bene il languore di notti erotiche/ribelli. La seduzione è completa. Joseph recita un suo poema/manifesto: ricorda la morte di George Floyd, il Black Panther Party, l’idea di rivoluzione coniugata con la pratica intima di una sintonia con il mondo.

IL PIANISTA Alexander Hawkins prende il posto di Gustafsson almeno per numero di performance. Un «tappabuchi» di lusso. Il suo solo convince anche se qualcuno fa notare che potrebbe essere meno «piacione». Ma è un modo per dire che si svolge all’insegna di un delizioso, coltissimo decorativismo. Lo strumento per una parte del set è «preparato» nella zona centrale. Hawkins gioca con arpeggi velocissimi, cita lo stile honky-tonky, tempesta la tastiera con ostinati sensuali, frequenta poco l’informale che pure gli è familiare, non dimentica un simil-Rachmaninov, ma tutto è coerente. Un folletto che non imbroglia. In duo col percussionista monstre Hamid Drake fa un po’ più il mestierante di alto rango, ma per un tratto del concerto si ricorda che sono esistiti Webern e Cecil Taylor e che lui, Hawkins, ne sa tradurre il messaggio in una musica dei nostri giorni. Lì è splendido. In duo con Jason Yarde non va proprio bene. Insiste col decorativismo e col «tutto pieno», mai una pausa un suono isolato un silenzio, e così non troviamo più il periodare per lame affilate e tagli crudeli di Yarde, che con Joseph agiva con pochi suoni e diceva molto (di radicale, di rivoltoso) e qui si mette a tematizzare e a riempire lo spazio di cliché free faticosi.

C’è Giancarlo Schiaffini nel programma. Si parla di uno dei massimi musicisti viventi. Come improvvisatore al trombone e alla tuba, come interprete di partiture sue, di Cage, di Nono. Lascia qualche perplessità come autore e interprete dal vivo di una Pinocchio parade per graphic art, video, elettronica e trombone solista. Si tratta di raccontare la favola di Collodi con musica e immagini. Il didascalismo della parte musicale è preponderante e incide negativamente sulla qualità. Le preziose sortite avantgarde dell’autore sono isole felici ma isole.

Con Jacky Terrason arriva il mainstream jazzistico. Molto sentimentale. In trio e in solo il pianista francese punta sulla estenuazione del «rubato» alle prese con le canzoni più famose (Lover man, Caravan, Over the Rainbow) e fa un piano-bar di alto livello. Con il trio Hamid Drake-Alfio Antico (percussionista e cantastorie siciliano)-Alberto Balia (chitarrista sardo) si teme la demagogia folk. Invece no. Procedono con misura e gusto, mettono dosi di jazz accanto a ballate popolari («portami con te dove non ci sono parole»), rivelano una sapienza dell’attualità.

Il gruppo The Comet is Coming ottiene il pienone e il tifo da stadio. Luci stroboscopiche, faretti sparati sul pubblico, fumi rosso fuoco. Le tastiere di Danalogue disegnano atmosfere galattiche e gotiche, il sax di Shabaka Hutchings urla mini-frasi ossessive, la batteria di Batamax Ohm picchia implacabile. Che notte ragazzi! I quattro di Roots Magic, in chiusura del festival, fanno musica non effetti speciali. Alberto Popolla (clarinetto), Enrico De Fabritiis (sax), Gianfranco Tedeschi (contrabbasso), Fabrizio Spera (batteria) rileggono il grande jazz di Hemphill, Kalaparusha Maurice McIntyre, Olu Dara, John Carter più il blues delle origini. Con cura, con amore.