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«Modello Marine» e Ue

«Modello Marine» e UeManifestazione del gruppo xenofobo Pegida in Olanda – LaPresse

Destre La battaglia comune dei partiti razzisti contro «l’Europa tecnocratica»

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 8 dicembre 2015

Per Marine Le Pen l’obiettivo è già stato raggiunto. Quante siano le regioni che alla fine il Front national riuscirà a conquistare domenica prossima – almeno due, il Nord-Pas de Calais e la Paca nel sud-est, sembrano ormai date per perdute anche dagli osservatori più ottimisti -, il vero secondo turno di queste elezioni la leader del Front National se lo giocherà nel 2017, nella corsa per l’Eliseo. Dal suo punto di vista, la posta in gioco delle regionali, per quanto importante, è relativa, conta davvero se osservata nella prospettiva del voto per la guida della République.

Governare territori in cui vivono milioni di francesi significa assicurarsi delle casematte elettorali che possono fare la differenza in un ballottaggio a cui Le Pen è già certa di poter arrivare, sostenuta in questo da sondaggi lusinghieri che si stanno rivelando perfino al di sotto dei suoi reali indici di popolarità.

Una prospettiva che di per sé rappresenta già un risultato e che proietta immediatemente il voto francese in un’altra dimensione, quella europea. E lo fa, in più, a diversi livelli. Da tempo «il modello Marine» si è infatti imposto tra le nuove destre europee come ipotesi di trasformazione in senso sociale, anti-Ue e anti-sistema di formazioni spesso cresciute solo intorno alla denuncia del «pericolo immigrati», come indica, nel nostro paese, la torsione nazionalista della Lega di Salvini stretta alleata del Front National. Anche al di là del gruppo che a Bruxelles riunisce leghisti e frontisti agli esponenti del Partito per la libertà olandese di Geert Wilders, ai fiamminghi del Vlaams Belang fiamingo e ai liberalnazionali austriaci eredi di Haider, è alla Francia lepenista che guardano come nuova polarità dell’emergente populismo europeo partiti e movimenti del nord come del sud del continente.

Dalle estreme destre scandinave, prossime, come in Danimarca, al governo, o già entrate nella stanza dei bottoni, come in Norvegia, ai razzisti anti-islamici tedeschi di Pegida, fino ai nuovi nazionalisti dell’Europa centro orientale, in Polonia, Ungheria, nei Balcani come lungo il Baltico. La battaglia comune contro quella che Le Pen definisce come «l’Europa tecnocratica» o «la Ue sovietica di Bruxelles» è del resto cominciata da tempo, al di là dei posizionamenti tattici di questo o quel partito in seno al parlamento comunitario. Non a caso, intervistato dall’Ansa ad urne appena chiuse, il numero due del Front National, Florian Philippot, in corsa per la guida della macro-regione del nord-est del paese che comprende anche Alsazia e Mosella, ci ha tenuto a sottolineare come la vittoria del suo partito vada letta come un segnale generale che non si può comprimere nei soli confini della Francia.

«I movimenti patriottici – ha detto Philippot – stanno crescendo ovunque in Europa, in Italia con il nostro alleato Matteo Salvini, ma anche in Germania, Gran Bretagna… È una realtà incontestabile. Stiamo assistendo al risveglio dei popoli nella grande lotta per il ritorno della sovranità nazionale, contro l’immigrazione e contro l’Unione». Entusiasmo condiviso proprio dal segretario leghista che si è detto «felice per il risultato di Marine», ma che ha anche voluto aggiungere una propria personale minaccia. «Questo non è che l’inizio, diciamo che è l’ultimo avviso: se l’Europa non cambia e se non si riscrivono tutti i trattati, restituendo il potere ai cittadini, questa Europa è finita».

Anche al di là del reale potere di veto che avranno d’ora in poi i populisti di destra nei singoli paesi, il problema è proprio quello posto a suo modo brutalmente da Salvini, vale a dire: cosa resterà dell’Europa politica dopo il voto francese? Qualche segnale, decisamente inquietante, era già arrivato prima delle regionali transalpine, ad esempio dal referendum con cui i danesi hanno bocciato la scorsa settimana l’adozione di alcune direttive comunitarie in materia di sicurezza e giustizia, o, in modo ancor più clamoroso, dal modo in cui i governi di un buon numero di paesi dell’est, non tutti dominati dalle destre o in linea con l’Ungheria di Orbán, si erano opposti strenuamente alla ripartizione dei rifugiati decisa da Bruxelles. Un braccio di ferro che in Polonia ha avuto evidenti conseguenze elettorali con la vittoria della formazione nazional-cattolica Diritto e giustizia.

Dopo la ventata gelida arrivata dalle regioni francesi la scorsa domenica, e quello che potrà ancora accadere nel weekend a venire, c’è da chiedersi in quale clima si arriverà nei prossimi mesi al referendum britannico sulla Ue o, in tempi ancor più ravvicinati, alle elezioni politiche spagnole del 20 dicembre. Se come risposta alla crisi economica e sociale nel segno della paura e della chiusura su se stessi, dalle urne continuerà ad uscire una richiesta forte e apparentemente inarrestabile di frontiere, controlli e dazi e di un ritorno alle prerogative degli stati nazionali, la già fragile costruzione politica continentale rischia concretamente di andare in pezzi o di subire tali colpi da non essere più in grado di rialzarsi.

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