Il 3 marzo, a Parigi, prima che cominciasse la sfilata di Givenchy, è stato distribuito un testo scritto per l’occasione da Antony Hegarty (Antony and the Johnsons). Il titolo, Future Feminism, poteva essere legato alla collezione che da lì a qualche minuto, indossata dalle modelle, avrebbe percorso la passerella. Ma anche no, perché in realtà il testo era stato scritto a prescindere dalla collezione. Un passaggio del testo dice: «Abbiamo violentato allo stesso modo il corpo della Terra e quello della donna, e siamo arrivati alla fine della nostra storia. Che gli uomini facciano un passo indietro, hanno fallito. Se c’è un futuro che riguarda tutta l’umanità, è femminile».
Si dirà: è facile per un musicista che fa del transgender la sua bandiera fisica e culturale scrivere un discorso che pretende di indicare un femminismo del futuro. Forse. Può essere. Ma non è facile per niente per la moda mettere a disposizione di questo discorso una platea così ampia e globale come è una sfilata di moda di un marchio di risonanza globale.

A commento delle sue sfilate Prada e Miu Miu per il prossimo inverno, Miuccia Prada dice: «Ho voluto parlare del piacere della moda, anche perché la moda oggi sta esprimendo la cosa più importante per questi tempi: il desiderio di cambiare». Alla fine della sfilata di Haute Couture di Chanel lo scorso gennaio a Parigi, Karl Lagerfeld ha mandato in passerella due spose: è la sua presa di posizione sulla polemica scoppiata in Francia sulla legge dei matrimoni omosessuali.
La moda, quindi, ha cominciato a lavorare, e anche in modo molto veloce, per uscire da un percorso segnato da anni di schiacciamento sull’esistente per staccarsi da una società pensata tutta sui valori maschili. Mettendo a disposizione la propria creatività, la moda sta cercando, cioè, di riprendere in mano quello strumento della radicalità che le ha consentito, storicamente, di anticipare i cambiamenti sociali necessari ma che difficilmente si realizzano se sono lasciati soltanto nelle mani della politica. Da qualche stagione, la moda sta lavorando più sui significati che sulle forme, e li trasferisce sull’abito. Che non è un oggetto insignificante, ma è quella cosa che ci definisce alla vista degli altri. Oggi la moda non richiede alcuna legittimazione né chiede di essere accettata: non è più, come ai tempi del reflusso, in quella condizione di inferiorità che l’ha costretta a costruire le tipologie di donne così come richieste dalla società maschile. Consapevole di quanto l’estetica può essere l’etica, la moda oggi fa ricerca più di altri ambiti creativi su una nuova estetica che rivaluti la dignità delle persone, donne e uomini. Per fare un esempio, la moda sta proponendo le gonne agli uomini, facendogli capire che indossare la gonna non vuol dire avere una sensibilità femminile (né essere omosessuali) e, nello stesso tempo, avverte le donne che i pantaloni conquistati a forza di lotte possono trasformarsi facilmente nello stesso strumento fallimentare del potere maschile. E ancora, ha eliminato ogni age discrimination perché non fa più dell’età un elemento determinante per la sua definizione, come ha trasformato le minoranze in un’espressione di valore. Indica, così, una strada possibile per il cambiamento usando il suo potere di fascinazione.
Sono segnali, è vero. Ma segnali che vanno seguiti, analizzati, incoraggiati e anche controllati. Segnali di cui si occuperà questa neonata rubrica ManiFashion, cercando di scalfire quel muro di pregiudizio che la cultura, soprattutto quella italiana e anche quella di sinistra, ha sempre avuto nei confronti della moda, ritenuta a torto solo espressione di futili falpalà.