Dopo 27 anni, la celebrazione dell’anniversario della più grande tragedia della marina mercantile italiana si è svolta ieri pomeriggio con uno spirito diverso. Tra i familiari dei 140 morti del Moby Prince ha preso corpo la speranza di capire cosa è davvero accaduto la notte del 10 aprile 1991. Fra loro Luchino Chessa, figlio di Mauro, l’esperto comandante che quella notte dirigeva il traghetto, e che a lungo è stato ingiustamente considerato fra i corresponsabili della collisione con la petroliera Agip Abruzzo, avvenuta a sole due miglia dalla costa labronica. “Ma grazie alle conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta, che hanno portato a un ribaltamento delle verità processuali – osserva Chessa – noi familiari ci aspettiamo ora di poter arrivare finalmente alla verità”.
Nella relazione finale dei senatori è scritta una storia diversa da quelle processuali. La commissione ha (ben) lavorato fra migliaia di pagine di documenti, testimonianze anche contraddittorie, pareri di consulenti e dati tecnici. “La storia ufficiale – tira le somme Chessa – che racconta di un banale incidente dato dalla nebbia, e dall’errore umano, è stata finalmente smentita, ipotizzando scenari ben diversi: nebbia inesistente, posizione e orientamento della petroliera diversi da quelli processuali, una ‘turbativa’ nella rotta del traghetto. E’ stata smontata anche la tesi della sopravvivenza sul Moby Prince di meno di mezz’ora, quando invece è stata di diverse ore, che ha aiutato a sminuire le gravi responsabilità dei soccorsi, tutti diretti alla petroliera”.
Quello che la commissione non ha potuto scoprire rinvia al muro di gomma rappresentato dalle autorità militari. Quel 10 aprile 1991 era appena finita la prima guerra del Golfo, e davanti al porto di Livorno erano schierate almeno sei navi militari Usa in attesa di scaricare armamenti a Camp Darby. Una delegazione della commissione è andata alla Nato a Bruxelles per cercare tracce satellitari, ma ha ricevuto una risposta ormai consueta: non ci sono materiali relativi a quella sera. Quanto agli Stati uniti, a ogni richiesta della magistratura è stato sempre risposto dal Pentagono che non c’era alcun satellite attivo su Livorno dalle 21 alle 24. Improbabile ma non smentibile.
Al tempo stesso i senatori della commissione, guidata dal dem Silvio Lai, hanno scoperto alcune novità. Così scrivono: “Si esclude che la nebbia sia stata la causa delle tragedia. Non c’è stato, prima del disastro, un fenomeno atmosferico di generale riduzione della visibilità in rada”. A seguire: “Il comando della petroliera non ha posto in essere condotte pienamente doverose. C’era il tempo per valutare la situazione e dare le corrette comunicazioni ai soccorritori”. Quanto alla Capitaneria di porto di Livorno, “non partirono ordini precisi per chiarire entità e dinamica dell’evento e per ricercare la seconda imbarcazione (la Moby Prince, ndr). Ci fu impreparazione e inadeguatezza”.
Su quest’ultimo punto Chessa insiste: “Perché l’Agip Abruzzo ha attirato tutti i soccorsi verso di sé, e nessuno ha comunicato che c’era un traghetto in collisione?”. Una domanda alla quale la procura livornese dovrà cercare di rispondere con nuove indagini, nella terza inchiesta penale sulla tragedia aperta il mese scorso, sulla base della relazione finale della commissione parlamentare. Una relazione pronta anche a segnalare che la Agip Abruzzo era in una zona vietata all’ancoraggio. E che un documento, recuperato dai finanzieri da un broker delle isole Bermuda, dov’era custodito, registra come il 18 giugno `91, a Genova, fu siglato un accordo tra Navarma, proprietaria di Moby Prince, e Snam-Agip spa, armatore della petroliera, in cui le due parti rinunciavano a qualunque pretesa di indennizzo reciproco. “In soli due mesi, gli armatori e le loro compagnie assicuratrici si accordarono per non attribuirsi reciproche responsabilità”.