«Il poeta si trova nella condizione spietata di misurare le sofferenze, proprie e altrui, e di scandire la poesia sul ritmo di chi ha più male». Questo paradigmatico passaggio, tratto da una lettera di Furio Jesi a Giulio Schiavoni, risale al 7 giugno 1969, poco prima che per Silva, editore di Germania segreta (’67), uscisse l’unica raccolta poetica licenziata dallo studioso torinese, intitolata L’esilio (1970), pressoché rimossa dall’establishment culturale del tempo e ora opportunamente riproposta da Aragno, con ineccepibile cura di Giacomo Jori (pp. LXIV-198, € 15,00). Si tratta di un poema sui generis, composto tra il ’63 e il ’69, in cui molto presente è l’elemento programmatico che tocca svariate tematiche riguardanti soprattutto il concetto di esilio (o quello analogo di Outremer, come si intitola una delle sezioni più pregnanti del libro), ereditato da un retaggio ebraico filtrato dal magistero di Scholem (ma anche della cattolica Zambrano).
In un comunicato stampa dell’epoca, allestito per promuovere la raccolta, l’autore precisa: «Specialmente nell’ambito della mistica, l’esilio apparve come un’esperienza dapprima redentrice, poi sempre più catastrofica e apocalittica, fino alla morale di Shabbetày Tzevì (“Lodato sii Tu, o Dio, che permetti ciò che è proibito”)». Si passa così, attraverso una fitta ragnatela di rimandi, perlopiù di autori investigati in chiave ermeneutica (Pascal, Kierkegaard, Mann, Rilke, Brecht, Canetti), dal mondo del mito incarnato nelle figure classiche delle Amazzoni e di Kore a quello di Ahasvero, l’ebreo errante condannato a vagare eternamente per non aver riconosciuto l’operato di Cristo, al Carnevale di Bruxelles, ispirato a un celebre dipinto di Ensor, e alla Katabasis.
Questa discentio ad inferos costituisce una rivalutazione della dimensione epica («un’epica è un poema che include la storia» precisò Pound), che riesce abilmente a coniugare un forbito classicismo («ove per me soltanto i rami tremarono alti / e dagli antichi e caldi voli del vento / giunsero fino al mio cuore le stelle dell’Orsa») a una sprezzatura in parte derivata dalla lezione montaliana. I versi oscillano fra misure tradizionali, come il settenario e l’endecasillabo, e verso libero. Molto evidente è il topos della battaglia che affonda le sue radici nel particolare momento storico (il capolavoro saggistico di Jesi, Letteratura e mito, esce da Einaudi nel 1968), affrontato anche nel romanzo postumo L’ultima notte che contrappone due mondi metaforici, quello vampiresco e quello del consorzio umano, tesi a creare una sorta di coincidentia oppositorum: «sicuro per vani lampi / d’essere in armi contro chi dona la morte, / di durare in battaglia contro l’acqua e i macigni / sovrani negli abissi e nei pozzi».
Tra criptocitazioni, pastiches e ricorsi alla mise en abyme, la poesia di Jesi si contraddistingue per uno scoperto approccio poundiano (molto presente anche il modello della Waste Land eliotiana, nonché dei Four Quartets), come ammesso dall’autore in Materiali mitologici: «se Kàroly Kerényi è stato la persona da cui ho imparato di più in materia di mitologia, Ezra Pound è stato senza dubbio la persona da cui ho imparato di più in materia di poesia». In quest’ottica va interpretata la frequentazione con l’egittologo Boris De Rachewiltz, genero ed esegeta di Pound, che scrisse la prefazione al volume d’esordio La ceramica egizia (Saie 1958, Aragno 2010), dedicato all’antropologo Leo Frobenius. Tale influenza non tocca tuttavia l’ambito ideologico, essendo Jesi, come scrisse Calvino, «uno Zolla che gira a rovescio, a sinistra».
È noto che la formazione di Jesi si basasse negli anni cinquanta su discipline atipiche quali l’archeologia e l’etnologia. Molto presente era il modello di Pavese che, insieme a Ernesto De Martino, dirigeva per Einaudi la celebre «collana viola» in cui furono pubblicati studiosi del calibro di Kerényi, Jung, Frazer, Propp, Durkheim, Eliade. E l’influsso del cadenzato passo poetico pavesiano è avvertibile in alcuni esiti dell’Esilio: «Solo lei va sovrana sui ponti, con fedele pace ti insegna / a percorrere la sua pianura, a durare nel cuore del vento / nei vicoli notturni, tra le case alte, quieto nel buio».
Osserva il curatore: «I versi di Jesi sono resi enigmatici dall’ambigua plurivocità del linguaggio, dalle vertiginose capacità di astrazione, dalla vastità e profondità dell’erudizione; un’oscurità che non può essere ricondotta unicamente allo sperimentalismo della neoavanguardia in Italia, ma che appartiene piuttosto a quella koinè dello “scrivere oscuro” evidenziata negli anni Settanta da Primo Levi, per Pound, Trakl, Celan». Sarà perciò un nucleo ristretto di immagini o archetipi (il volto, la mano, il «cuore impietrato», la morte, la battaglia ecc.), rinvianti al concetto di «macchina mitologica», a ricorrere insistentemente in questi testi, disponendosi in connessioni simboliche sempre variate che sottendono una serie infinita di aporie. Quasi un gioco combinatorio che non presenta alcunché di gratuito (agli antipodi i modelli di Queneau e Perec), ma in cui si impone il tragico substrato della «pietra che giace dentro di noi».