I parlanti anglofoni – specialisti nel coniare espressioni sintetiche e precise – la chiamano nesthousing. È la tendenza, particolarmente diffusa e sviluppata durante la pandemia, a considerare la propria casa, appunto, un nest, un nido. Un luogo appartato e protetto, totalmente impermeabile alle minacce che provengono dall’esterno, trasformato in un microcosmo del tutto autosufficiente. Difficile, faticoso da lasciare, anche quando si allentano, come sta accadendo, le restrizioni di carattere sociale. La casa diventa insomma l’epicentro della vita materiale e simbolica, l’hortus conclusus in cui si vivono tutte le esperienze prima possibili al di fuori del nido: mangiare, dormire, lavorare, incontrare, ascoltare, guardare, leggere, consumare prodotti reali e immateriali. La conseguenza è ovviamente lo svuotamento progressivo dei luoghi destinati alle relazioni sociali non virtuali, in particolare quelli riservati ai consumi culturali: teatri, cinema, musei, librerie, biblioteche.

Il nesthousing sembra particolarmente pronunciato, oggi, negli Stati Uniti, nel nord d’Europa, ma si sta diffondendo anche nei paesi del sud d’Europa, Italia compresa. Lo si deduce, in modo controfattuale, dal numero di spettatori che in questi ultimi mesi, dall’autunno a oggi, frequentano i cinema, i teatri di prosa, le sale da concerto, i teatri lirici. È troppo presto per avere dati certi e statisticamente attendibili, ma l’impressione è tristemente sotto gli occhi di tutti. Salvo qualche eccezione, è esperienza comune entrare in un cinema alle dieci di sera e ritrovarsi con dieci spettatori in sala, andare ad ascoltare un concerto di musica «classica» e constatare che i posti occupati sono meno della metà, assistere a un’opera e scrutare con ancora maggiore malinconia i palchi del teatro immancabilmente vuoti. Paura, disagio, disabitudine, disaffezione, fatica a lasciare le pareti confortevoli del nido. Le cause sono facili, in fondo, da individuare. Ed è anche abbastanza agevole prevedere che nel giro di qualche mese, forse già dalla prossima estate, quando si diffonderà in modo pervasivo la sensazione di vivere nell’epoca della post pandemia, i numeri assoluti ricominceranno a salire.

Ma siamo proprio sicuri che sia confortevole, rassicurante, attraente ritornare, posto che sia possibile, alle consuetudini dell’epoca pre-pandemica? Se limitiamo lo sguardo alla ragione sociale di questa rubrica, ossia alla sedicente musica «colta», nessuna nostalgia sembra lecita. Vogliamo davvero ritornare ai riti stanchi e ripetitivi delle «prime» (ma anche delle seconde e delle terze) dei teatri lirici nazionali? Al pubblico logoro delle élite cittadine, prevalentemente âgé e benestanti, compiaciute del rito di appartenenza sociale che si celebra a ogni rappresentazione? Oppure ai concerti «di giro» che infittiscono le stagioni della maggior parte delle società dei concerti? Coi soliti nomi di squillo, italiani e stranieri, che raccolgono poche centinaia di appassionati, membri anche in questo caso di una borghesia più o meno illuminata e ormai ai margini, per raggiunti limiti di età, della filiera produttiva? Forse le istituzioni musicali italiane potrebbero trarre, dalla pandemia e dallo sconvolgimento sociale che ha portato, qualche fertile insegnamento. Le ricette miracolose non esistono ovviamente, ma alcune misure, relativamente a portata di mano, rientrano nell’orizzonte del possibile: ridurre drasticamente, ad esempio, i prezzi dei biglietti degli enti lirici, uscire dalle secche di una programmazione che privilegia il già visto e il sentito, ripensare il «rito» del concerto, mettere la musica al centro del quadrato magico delle altre discipline (il teatro, l’arte, la poesia), ripensare i luoghi della musica, rendendoli più accessibili e meno separati dal corpo delle città, portare i concerti al di fuori dei teatri e delle sale «specializzate». Far comprendere insomma che fuori dal nido non si precipita a terra con le ali spezzate. Si vola.