Dice che qualche tempo fa l’aveva fermato la polizia perché si aggirava nel giardino di una casa, in New Jersey forse, e i proprietari avevano paura di questo uomo con felpa con cappuccio e berretto. Ma lui stava solo guardando la casa, illuminata dal lampione, la natura immobile, una vecchia auto parcheggiata. Al poliziotto aveva detto «sono Bob Dylan», e quello aveva risposto, sbuffando, «e io sono Mickey Mouse». Ma lui era per davvero Bob Dylan, e guardava sul serio la casa, illuminata da quel lampione solitario, e la natura circostante, e la profondità di campo, e l’armonia di quel paesaggio silente. Niente di più, niente di meno.

«A volte le apparenze ingannano», scrive lui presentando i suoi ultimi quadri, «per questo volevo creare immagini che non si potessero male interpretare o fraintendere»: anonimi motel, pallidi diner, luna park dimenticati, auto vintage, pescati dal suo sketchbook di viaggio che ci raccontano chi eravamo e ci costringono a chiederci cosa saremo. Non molto di più, e niente di più semplice. È l’American landscape, timido e nostalgico, sono i rimasugli di un passato che ci siamo buttati alle spalle ma da cui non si sfugge. Una natura che ci osserva muta, e così le case, le stazioni di servizio, le vetrine di un negozio di provincia. E poi c’è la strada, ovviamente, la presenza costante e lineare nel suo mondo, da sempre, sia di città o striscia d’asfalto che si srotola all’infinito verso l’orizzonte. Lui che, da sempre, è in concerto ogni sera in una città diversa, in un tour che non ha mai fine.

«A un sacco di gente non piace la strada, ma per me è così naturale come respirare. Io lo faccio perché mi sento trasportato a farlo. È l’unico posto dove puoi essere quello che sei», aveva raccontato al New York Times. La strada non solo ti porta in un luogo. La strada è il luogo. Non c’è sentimentalismo, nei suoi dipinti, non c’è artefatto. Dylan mostra solo quello che vede per rappresentare esattamente quello che vede: la vastità del paesaggio americano che non contempla l’uomo. Nei grandi quadri in acrilico sono totalmente assenti le presenze umane, e non perché immagina un mondo post apocalittico alla Cormac McCarthy di The Road, ma perché, forse, è l’uomo che sta osservando fuori-da-sé. Perché, forse, descrive il cuore di un paese che si riflette nei suoi occhi blu ghiaccio.

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Spazi e luoghi sono tratteggiati con una sottile e quieta bellezza, con mano ferma ma cuore martellante. The Beaten Path è un sentiero battuto, forse perduto, è la manifestazione di un paese che, nonostante le «botte» prese, continua ad affascinare. «Disegnare è una forma di investigazione. E il primo generico impulso a disegnare deriva dal naturale bisogno dell’essere umano di cercare, di segnare punti di riferimento, individuare le cose e di immaginare se stessi», dice John Berger sotto uno dei quadri già venduti nell’elegantissima galleria Halcyon di Mayfair. Chi ancora non capisce il valore della poesia di Dylan, e chi pensa che non sappia cantare, troverà una pittura naif senza grandi qualità. Chi, invece, aprirà il proprio cuore e spalancherà gli occhi, troverà un Monet che si aggira per la città con l’iPod e le cuffie, un Hockney rockabilly, un Hopper che abbandona la chitarra acustica per una elettrica. E un sogno che non finisce mai.