Il dramma della Bosnia era tutt’altro che imprevedibile: è il frutto della scellerata gestione della rotta migratoria orientale. La commissaria agli Affari Interni dell’Ue, Ylva Johansson, ha criticato le autorità di Sarajevo per non aver assistito centinaia di migranti. Eppure, la posizione della Commissione europea fa trasparire responsabilità tutte nostre.

Dal 2018 si è assistito al tentativo di utilizzare i Paesi balcanici come «cuscinetto» per bloccare i nuovi arrivi, determinando una compressione in Macedonia, Serbia e infine in Bosnia. Così, oggi, migliaia di migranti sono letteralmente «ammassati» nel poverissimo cantone bosniaco di Una-Sana, nel nord-ovest del Paese. Questo ha prodotto il dramma del campo di Lipa, una situazione umanitaria senza uguali.
Lo snodo che dovremmo affrontare con verità e senza furbizie è quello dei respingimenti. I cosiddetti pushback sono illegali quando si operano senza verificare la condizione individuale dei migranti: chi chiede asilo si qualifica come rifugiato e non può in nessun caso essere respinto.

È della rete RiVolti ai Balcani la stima di almeno 1.240 migranti «riammessi» dalla polizia italiana verso la Slovenia nel 2020. Una pratica, questa delle «riammissioni», condannata dal Tribunale ordinario di Roma che con la sentenza del 18 gennaio ha dichiarato: «La prassi adottata dal ministero dell’Interno in attuazione dell’accordo bilaterale con la Slovenia è illegittima sotto molteplici profili», non da ultimo perché opera espulsioni collettive senza considerare appunto la posizione dei singoli migranti.

Parliamo di donne e uomini illegalmente inviati in Slovenia e poi «rispediti» in Croazia, la cui gestione dei flussi è tristemente nota: abusi, violenze e umiliazioni ad opera della polizia croata avvengono nel silenzio assordante dell’Italia e dell’Ue. È tempo di agire, di rispondere con decisione e senso pratico alla crisi umanitaria. Per questo, nelle prossime ore, insieme a eurodeputati italiani S&D (Bartolo, Benifei, Majorino e Moretti) prenderemo iniziative di verifica e ispezione lungo i confini italo-sloveni e croato-bosniaci. Dall’inizio del 2018, l’Ue ha fornito 89 milioni di euro alla Bosnia-Erzegovina per rafforzare le sue capacità di gestione dei flussi migratori. Questo sostegno comprende 13,8 milioni di euro stanziati in aiuti umanitari, attuati da organizzazioni internazionali.

L’intervento d’emergenza risponde soprattutto alle esigenze emerse nel Cantone di Una-Sana, a Tuzla e nell’area di Sarajevo. Fanno parte dell’intervento emergenziale i 4,5 milioni di euro allocati ad aprile 2020, e i 3,5 milioni di euro annunciati il 3 gennaio 2021. Risorse dedicate alla fornitura di vestiti, coperte, cibo, assistenza sanitaria, strumenti per il contrasto del coronavirus. Tra i dispositivi messi in campo dall’Unione per la gestione dei flussi migratori emerge il ruolo di Frontex: l’agenzia della guardia di frontiera e costiera europea al centro dello scandalo che coinvolge il suo direttore esecutivo Fabrice Leggeri.

Frontex aiuta i Paesi Ue e Schengen a coordinare la gestione dei confini, nonostante le autorità statali mantengano sempre la responsabilità esclusiva sul proprio controllo frontaliero. L’agenzia è costantemente bersaglio di accuse da parte di Ong e per questo l’Europarlamento vuole istituire una commissione d’inchiesta sul mancato rispetto dei diritti umani.  Non illudiamoci: non sarà possibile estirpare il marcio dalla gestione delle frontiere comunitarie solo attraverso un repulisti delle figure apicali, oppure scaricando le responsabilità sugli stati frontalieri come la Bosnia appunto. Troppo spesso si sommano le denunce del mancato rispetto dei trattati anche da parte degli stessi Paesi membri Ue come Italia, Slovenia e Croazia.

Occorre uno sforzo ulteriore delle istituzioni europee per la necessaria riforma della convenzione di Dublino. Solo così potremo sottrarre alle barbarie la gestione dei flussi e dell’intera filiera, senza delegare a terzi la vita, la morte e il transito di migliaia di persone.

* Eurodeputato di S&D