A parte l’ammodernamento delle dotazioni tecnologiche il grosso della missione 6 sulla sanità del Pnrr riguarda il rafforzamento della rete territoriale delle aziende sanitarie.

Riguarda cioè l’istituzione di 602 centri operativi territoriali, 1208 case di comunità e a livello intermedio 381 ospedali di comunità. Non esiste da nessuna parte una definizione chiara che spieghi senza ambiguità cosa voglia dire per questi servizi il termine “comunità”.
A tutta prima sembrerebbe una operazione puramente nominalistica cioè l’uso di un nome nuovo per chiamare delle cose vecchie come infatti sono oggi le “case della salute” che a loro volta altro non sono se non la riedizione dei poliambulatori Inam di circa un secolo fa. A giudicare dalle funzioni descritte nel Pnrr effettivamente sembrerebbe così.

Ma se così fosse non sembra adeguato, ed è quanto meno discutibile, rispondere ad una pandemia resuscitando vecchi modelli di servizio del passato, corrispondenti a concezioni di welfare ormai ampiamente superate e riformate. Resta da capire, a parte darci l’illusione di un finto cambiamento, la ragione pratica di questa operazione ingannevole cioè il perché nel riproporre la vecchia idea di poliambulatorio scomodare il concetto comunità.

La risposta ai nostri dubbi ci viene da un articolo pubblicato ( 7 maggio, Quotidiano sanità.it) da Giorgio Sessa “Campagna 2018 Primary Health Care: Now or never” e da Virginio Colmegna Presidente Associazione “Prima la comunità”. Contestando la lettura banale che interpreta la casa di comunità come un poliambulatorio cioè un ex casa della salute ci spiegano che in realtà essa si chiama di comunità perché è una idea di servizio pubblico ma con una nuova forma di gestione sociale.

Questa interpretazione a ben vedere non è altro che la traduzione dell’idea di welfare dal basso su cui tanto si è discusso in questi anni cioè di un welfare che non viene più gestito direttamente dall’azienda pubblica ma viene gestito o co-gestito soprattutto da chi ritiene di rappresentare la comunità, in particolare il terzo settore.

Da molti anni ormai sostengo che la gestione aziendale della sanità è una tragedia perché è una gestione ottusamente monocratica e che bisogna pensare ad una gestione nuova a partecipazione sociale ma. Essendo un convinto difensore della sanità pubblica, personalmente, al terzo settore preferisco i consorzi o, ripuliti per bene, i comitati di gestione di una volta nominati dai comuni. Cioè nuove forme di gestione pubblica partecipata.
Chiedo ai rappresentanti di “prima la comunità”, perché se la partecipazione della comunità in sanità è tanto importante, limitarla ai soli ambulatori e non estenderla a tutto il sistema sanitario, cioè a tutti i servizi, ospedali compresi? Cioè perché non rinnovare l’intero sistema sanitario superando le aziende con altre forme di gestione?

Gli ospedali di comunità ai fini della gestione partecipata valgono come le case di comunità? Se si, allora in ragione di quale logica si escludono gli altri ospedali dal beneficio sociale della partecipazione? Personalmente avrei forti perplessità nei confronti di una operazione che alla fine, senza cambiare la gestione aziendale, si limitasse ad appaltare parti del sistema sanitario pubblico al terzo settore.

Ma in tutto ciò emergono due enormi questioni politiche. Riformare la gestione di un qualsiasi servizio sanitario pubblico non è uno scherzo. La casa di comunità funziona grazie ad una comunità di professioni ed è questa comunità che manda avanti un intero sistema di servizi, quale ruolo ha questa comunità nella gestione? Si può decidere di cambiare senza sentire chi lavora?

Dal momento che nel Pnrr manca una definizione di casa di comunità resta aperta la questione, tutta politica, di connotarla. Bisognerebbe chiedere al ministro Speranza: se le case di comunità sono solo poliambulatori gestiti dalla azienda o se sono, come dice il presidente di “prima la comunità”, strumenti per “una rifondazione del sistema di welfare “.
In quest’ultimo caso, non saremmo di fronte a una riforma, per il semplice motivo che la missione 6 non è una riforma, ma una contro-riforma. Per giunta fatta senza dirlo, senza aprire una discussione, senza giocare a carte scoperte, allo scopo di dare parte dei 20 mld del Recovery plan al terzo settore. Fiduciosi aspettiamo dei chiarimenti.