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Miseria e corruzione senza fine, Haiti in rivolta contro Moïse

Miseria e corruzione senza fine, Haiti in rivolta contro MoïseUna donna tra i copertoni bruciati a Port-au-Prince, durante le proteste di piazza contro il governo di Haiti – Afp

Dalla crisi al caos Non si fermano le proteste antigovernative che chiedono le dimissioni del presidente. Almeno dieci le vittime della repressione

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 21 febbraio 2019

Proteste ininterrotte e sanguinosa repressione. E una gravissima crisi economica frutto di decenni di politiche neoliberiste. È quanto, dal 7 febbraio scorso, sta andando in scena ad Haiti, nel silenzio pressoché totale della grande stampa, troppo distratta dalla presunta crisi umanitaria del Venezuela.

GIÀ NELL’OTTOBRE 2018 e poi ancora, e con più decisione, a novembre, il popolo era sceso in piazza in tutto il paese contro la distrazione di oltre 3 miliardi di dollari dal fondo di Petrocaribe – il programma solidale lanciato nel 2005 dal governo Chávez per distribuire petrolio all’area caraibica – operata da ministri e funzionari legati in particolare al precedente governo di Michel Martelly. Ma anche, secondo alcune rivelazioni, da un’impresa allora amministrata dall’attuale presidente, Jovenel Moïse.

Di fronte al rifiuto del governo di prendere sul serio la domanda posta allora per tutto il paese – «Dove sta il denaro di Petrocaribe?» – era solo questione di tempo che la ribellione esplodesse di nuovo, come puntualmente avvenuto il 7 febbraio, nel secondo anniversario dell’insediamento presidenziale di Moïse.

QUELLA CHE ERA NATA come una protesta anti-corruzione nel frattempo si è trasformata in una vera rivolta, con manifestazioni di centinaia di migliaia di persone in tutte le grandi città del paese, mirate esplicitamente alla rinuncia del presidente, con la motivazione, illustrata dal rappresentante della Brigata internazionale di Alba Movimientos ad Haiti Lautaro Rivara, che, se «non è accertato che Moïse sia un ladro, è sicuro però che sia a capo di una banda di ladri».

È una rivolta in cui hanno già perso la vita almeno dieci persone – ma c’è chi parla di oltre 50 vittime della repressione governativa – e che, in un paese in cui metà degli abitanti sopravvive con meno di due dollari al giorno, appare ulteriormente aggravata da un’esponenziale svalutazione della moneta locale, il gourde, rispetto al dollaro, da un’inflazione vicina al 15%, dalla scarsità di combustibile e dalla difficoltà di accesso ai beni essenziali.

Moïse ha interrotto il silenzio solo dopo otto giorni di protesta, dichiarando alla televisione di aver «ascoltato la voce della gente», ma respingendo l’ipotesi di un governo di transizione come richiesto dalle organizzazioni e dai partiti riuniti nel Settore democratico e popolare. E, chiedendo di «dialogare con tutte le forze del paese», ha cercato anche di ingraziarsi le fasce più basse, promettendo misure dirette ad «alleviare la loro miseria». Troppo poco e troppo tardi.

SI SONO FATTI SENTIRE anche gli Stati uniti, che, seguendo una strategia opposta a quella impiegata per il Venezuela, hanno elogiato il presidente per il suo richiamo al dialogo, insistendo sulla necessità di un negoziato con l’opposizione sui temi della politica economica e della lotta alla corruzione.

Anche per Haiti, però, come per il Venezuela, l’amministrazione Trump lavora a un programma di assistenza umanitaria, per far fronte, dice, alle necessità delle fasce più povere in tema di sicurezza alimentare. Una politica di “aiuti” già sperimentata in passato, e con effetti catastrofici, dal popolo haitiano, essendo sfociata di fatto nell’occupazione del paese.

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