Nel 2005 Biloxi, città del Mississippi che si affaccia sul Golfo del Messico, fu devastata dall’uragano Katrina: le vittime furono oltre cinquanta, il 90% degli edifici cittadini andò distrutto e la successiva ricostruzione non fu comunque in grado di sanare quella lacerazione così profonda per la comunità, che venne affidata all’arte di arrangiarsi più di quanto non sia stata, effettivamente e proficuamente aiutata. Questa la premessa per calarsi nell’atmosfera deprimente in cui è immerso – undici anni dopo il passaggio dell’uragano – il protagonista di Biloxi, secondo romanzo di Mary Miller (tradotto da Leonardo Taiuti per Black Coffee (pp. 304, € 15,00).

Sessantenne abbandonato dalla moglie e in fuga dalla sussiegosa figlia, Louis restituisce a modo suo il profilo dello «White man» dell’era Trump. Pur non esente da una certa dose di autoironia, uomo dallo spirito meno gretto di quello che vorrebbe credere egli stesso, trascorre le sue giornate davanti alla tv (rigorosamente sintonizzata sulle frequenze di Fox News), annega nelle lamentele, brama la moglie del vicino e si trascura da ogni punto di vista, dopo aver abbandonato il lavoro per disporsi a un’attesa che sembra la parodia di quella attribuita da Gabriel García Márquez al protagonista di Nessuno scrive al Colonnello: è l’attesa di una grande, «definitiva» eredità che gli dovrebbe assicurare una vecchiaia in carrozza.

Per larghi tratti del romanzo la chiave scelta dall’autrice è quella del racconto umoristico, un abito che ben si attaglia alla condizione disperata di Louis, e che funziona grazie a una lingua allegra e schietta – nella resa brillante del traduttore. La scelta di narrare in prima persona offre diversi spunti voyeristici all’autrice e al lettore, e i dialoghi icastici e precisi contribuiscono a rendere la pagina di Miller godibile e mai eccessivamente satura.

La trama tuttavia esibisce spunti troppo «programmatici». Il protagonista si ferma d’impulso in una casa che offre «cani gratis» e adotta la meticcia Layla, esemplare un po’ tocco che sembra assomigliare al suo nuovo padrone per trasandatezza; è l’inizio di una nuova fase fatta di incidenti e «epifanie» un po’ corrive – una nuova presenza femminile, nuovi richiami sociali – non necessariamente divertenti, che portano meccanicamente il protagonista alla domanda decisiva: quando ha deciso di calarsi nel ruolo dell’uomo risentito e anaffettivo, e soprattutto, perché?

Un esempio paradigmatico è offerto dalla scena in cui il protagonista porta a passeggio il cane, che lo trascina a ritroso facendo sì che si attardi davanti a un semaforo. Gli viene incontro una famiglia afroamericana che passa di lì per caso, e sorride vedendolo alle prese con il guinzaglio: «Eravamo l’uno di fronte agli altri e cercavo di non guardarli. (…) Quando mi incrociarono in mezzo alla strada sorridevano e sghignazzavano, e allora sorrisi anch’io. Era un evento insignificante, eppure la loro gioia, e il fatto che avessero incluso anche me, mi diede la sensazione che stessimo facendo qualcosa insieme, che tentassimo come potevamo di attraversare sani e salvi la strada, e che non doveva per forza essere complicata come la stavamo facendo noi».

Louis comincia a condividere con il cane i suoi nuovi progetti di gloria e di riscatto – un riscatto miserabile fatto di tutte le perline che gli mancano per completare la collezione del perfetto uomo bianco americano – sempre in attesa della sospirata eredità, in un crescendo di rêverie una più scontata dell’altra, che tuttavia sembrano almeno allontanarlo dai pensieri angosciati circa i revolver – dalle sue parti abbondano – da cui ogni tanto si sente minacciato.

Si intravede in alcuni passaggi la tentazione dell’autrice di azzardare una improbabile immedesimazione con il suo protagonista misantropo, anche se la misura accorta della scrittura, pur minacciata a tratti da un certo sentimentalismo, mantiene per lunghi passi il romanzo sul tono amabile del registro umoristico.

Grazie alla prosa curata e fresca dei passaggi più felici – quelli più smaccatamente divertiti – Biloxi disegna con intelligenza un ritratto psicologico attendibile del protagonista, ma non sfugge alla angusta gabbia sociologica nella quale tanta letteratura statunitense contemporanea «impegnata» – qui nella sua variante «Southern» – finisce per rinchiudersi.

Miller, già autrice di due raccolte di racconti, Big World e Always Happy Hour, per la quale in America si sono sprecati paragoni ingombranti e come sempre fuori luogo (Carver, Hemingway), portatrice della abusata etichetta di autrice «minimalista», ricerca con insistenza la suggestione socio-politica dietro un côté leggero e accattivante, finendo troppo spesso – al di là di qualunque retorica sugli «scrittori del Sud» – nel già detto, e scadendo talvolta in cortocircuiti che rischiano di apparire un po’ banali.