Più che tornato, forse non è mai andato via del tutto. Benito Mussolini riappare al Mise, nella galleria dei ritratti di quelli che hanno occupato la poltrona di ministro. A lui toccò, per breve periodo, nel 1932 e così, nelle celebrazioni per il novantesimo di Palazzo Piacentini, nella parata di volti c’è anche il suo.

Appresa la notizia da un comunicato di denuncia stilato dalla Funzione pubblica Cgil, Pierluigi Bersani, che da quelle parti stazionò ai tempi del secondo governo Prodi, ha chiesto che venisse tolto il suo di ritratto e così dal Mise è arrivata una replica ufficiale a spiegare che il faccione imbronciato di Mussolini è stato piazzato lì per ragioni quasi ineluttabili: il duce fu (anche) ministro delle Corporazioni fino al 1936 e, nella mostra che ripercorre la storia del palazzo, la sua presenza è da considerare un fatto scontato che ha a che fare con la coerenza storica del tutto.

Giancarlo Giorgetti, che in attesa di nuovo incarico del Mise è ancora il responsabile, è però corso subito ai ripari: «Mi dicono che il ritratto l’hanno tolto. Comunque ce n’è uno anche a palazzo Chigi (nella Sala Verde, insieme a tutti gli altri presidenti del consiglio dall’Unità d’Italia in poi, ndr), e se è un problema lo togliamo anche da lì», ha detto con tono quasi contrito. Risponde Nicola Fratoianni: «Male, molto male. Togliamolo».

Il presidente della Camera Ignazio La Russa – che si è sempre vantato di avere in casa un’ampia collezione di bassorilievi, busti e ritratti di Mussolini – non ha perso l’occasione per chiarire anche ai più ottimisti come intende onorare le istituzioni durante il suo mandato: «C’è anche al ministero della Difesa e c’è scritto pure al Foro italico. Voglio dire, che facciamo cancel culture anche noi?».

Ma nei palazzi istituzionali di paccottiglia fascista ce n’è in abbondanza. Uno dei casi più celebri riguarda la scrivania che Mussolini adoperò tra il 1929 e il 1943: un catafalco di ingenti dimensioni in legno intarsiato che adesso i più benevoli al massimo definiscono «oggetto di antiquariato». L’ultima apparizione nota dello scrittoio risale al governo Conte I, quando la sottosegretaria al Sud Pina Castiello (Lega) si vantò di averlo nel suo ufficio, dicendosi pure meravigliata del fatto che in precedenza fosse stato stipato in un qualche magazzino.

A farlo sparire, nel 2011, era stato il ministro degli Affari europei del governo Monti, Enzo Moavero Milanesi: si era fatto portare via la scrivania «non per motivi ideologici o nel nome dell’antifascismo», ma per molto più banali ragioni di spazio. In effetti al posto del solo reperto mussoliniano entrarono ben due tavoli (uno da ufficio e uno per le riunioni). In precedenza, l’ingombro era passato per le mani anche di Silvio Berlusconi, che però non lo riteneva di suo gusto («Troppo buio») e lo appioppò al suo portavoce Paolo Bonaiuti. Nel 2017, intervenendo ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, l’ex ministro degli Interni Marco Minniti raccontò di averci lavorato anche lui al banco del duce quando era sottosegretario del governo D’Alema.

A interessarsi al fatto, ai tempi, fu soprattutto Giuliano Ferrara, il quale, una volta appurata l’esistenza del famoso tavolo, pare avesse commentato che in fondo era finito «in buone mani». L’aneddoto riscosse molto successo tra i militanti del partito di Meloni, e Minniti si congedò dall’incontro tra gli applausi divertiti, o forse ammirati, della platea. Perché, anche se lui non c’è più, la roba sua continua a piacere a molti. E non solo dentro ai palazzi.