I sessantatré giorni in cui venne rasa al suolo Varsavia si ritrovano raccontati da uno dei maggiori autori del secondo Novecento polacco, sin qui misconosciuto da noi, eccezion fatta per poche poesie apparse in riviste e antologie, in Memorie dell’insurrezione di Varsavia (a cura di Luca Bernardini, Biblioteca Adelphi, pp. 321, euro 22,00) primo libro pubblicato in Italia di Miron Bialoszewski: a titolo di confronto, basti dire che in America questo memoir conta tre edizioni, la più recente nei classici della NYRB (presso cui è uscita anche un’ampia antologia di sue poesie).

Il primo agosto del 1944, quando scoppiò l’insurrezione voluta dal governo polacco in esilio per anticipare la liberazione della città ad opera dell’Armata Rossa, Bialoszewski era studente all’università clandestina, ma non apparteneva a nessuna delle molte organizzazioni che alimentavano la resistenza all’occupazione tedesca.

Il resoconto dei due drammatici mesi che seguirono ci presenta il punto di vista di un civile e di un apolitico: è questa la prima peculiarità del libro, che lo distingue dalle molte relazioni centrate sulle gesta dei combattenti.

La seconda è legata al fatto che le Memorie furono pubblicate solo nel 1970, al termine di un lungo percorso di maturazione stilistica. «Per vent’anni – ammette Bialoszewski – non sono riuscito a scriverne»; ne parlava – tuttavia – con parenti, amici, conoscenti, fino a convincersi che «proprio questo chiacchierare è l’unico modo per descrivere l’insurrezione». L’esito, messo infine per iscritto, è un flusso di memoria che ha i tratti stilistici del parlato.

L’intento dell’autore è mimetico: riprodurre il processo di rammemoramento che ha luogo nell’atto stesso della narrazione, al punto che parte delle Memorie non fu scritta, ma trascritta, dopo essere stata raccontata dinanzi a un registratore. Anche in italiano andrebbero lette ad alta voce, e si presterebbero a venire portate in teatro da un bravo regista.

Uno fra i tanti

Quando il libro uscì in Polonia, il fatto che al centro non vi siano i protagonisti principali, ovvero i combattenti, bensì il vissuto di una delle tante comparse, narrato peraltro in modo privo di pathos, attirò non poche critiche. Sbaglia tuttavia chi vi legge una contro-narrazione, perché la strategia compositiva di questo memoir rimanda piuttosto a un esempio di narrazione parallela. Già nel 1957, quando uscirono I dannati di Varsavia, era stata rimproverata a Wajda l’antieroicità della sua rappresentazione; ma i protagonisti di quel film erano pur sempre soldati. Qui, invece, vengono raccontate le esperienze di un civile fra i civili, ciò che distingue la prosa di Bialoszewski anche dalle folgoranti miniature poetiche di Ho costruito una barricata di Anna Sirszczynska (in Felice come la coda di un cane, la Parlesia 2019), dedicate a civili e soldati in egual misura.
Nelle Memorie il focus non è su chi fa la Storia, ma su chi la subisce.

Bialoszewski non coltiva tuttavia intenti dissacratori: ammira l’abnegazione degli insorti, partecipa come volontario alla costruzione delle barricate, scava trincee, spegne incendi, tira fuori gente dalle macerie, trasporta feriti. Non è un imboscato. È un civile, come ce n’erano tanti anche fra i giovani, che magari sarebbero stati desiderosi di arruolarsi, ma venivano respinti perché le armi scarseggiavano.

Popola le Memorie una schiera di personaggi di contorno, ma non estranei all’insurrezione: marconiste, procacciatori di timbri autentici su documenti falsi (il Padre), stampatori di bollettini di guerra, staffette, portaferiti, tutta una galassia paramilitare che gravita intorno ai soldati dell’Armata Nazionale, mentre si aprono scorci inediti sui misteri della vita quotidiana in condizioni estreme: i bisogni primari da soddisfare, i cani e i gatti che scompaiono dalla circolazione, la santa comunione di desiderio in assenza di ostie, e altri fatti introvabili nei libri di storia.

Precisione topografica

«Non stiamo mica scrivendo di storia. Stiamo scrivendo di memoria» – diceva Marek Edelman a Hanna Krall raccontando anche lui in modo antieroico e antipatetico – in Arrivare prima del Signore Iddio (Giuntina 2010) l’altra insurrezione, quella del ghetto; riteneva preferibile non ordinare, falsificando, ma riferire ciò che la memoria aveva trattenuto, magari in modo impreciso, e più prossimo all’autenticità dei vissuti.

Anche Bialoszewski intende rispecchiare il «dibattersi della memoria», incurante delle date e della loro esatta successione. Per contrasto, massimo è lo sforzo di accuratezza nella descrizione topografica: strade, palazzi, chiese, tutto annotato come antidoto alle bombe che di lì a poco non ne avrebbero lasciato pietra su pietra.

Intanto, dopo l’euforia iniziale, la vita della popolazione si era spostata nel sottosuolo: le cantine avevano sostituito le abitazioni, le fogne avevano preso il posto delle strade. Quella delle Memorie è soprattutto una Varsavia sotterranea, catacombale. Una città sotto la città. In quella rete di scantinati si amava, si pregava, si chiacchierava, si stava distesi, si passeggiava, si stringevano amicizie, si ascoltavano inquieti e speranzosi i bollettini di guerra, si tremava di paura. Bialoszewski ci fornisce sprazzi di questa «vita in comune all’ombra della possibilità di morire», passata per metà a pensare come sfuggire alla morte e per metà a «sbrigare le faccende quotidiane, le più diverse, mangerecce, dormirecce, vestirecce», in una «correrella» senza tregua.

Le Memorie sono la cronaca di una fuga continua, da un quartiere a un altro, da una cantina a un’altra. Con osservazioni psicologiche sull’agonia, a cominciare dal fatto che le persone erano forzate a muoversi, perché chi sta per morire non riesce a stare fermo, non trova mai il suo posto. «Tutte le creature spaventate fuggono, si rintanano e fuggono ancora». Un incessante viavai. L’insurrezione di Varsavia è l’evento chiave della scrittura di Bialoszewski.

Come poeta poté rivelarsi solo nel 1956; prima i suoi versi disimpegnati, espressione di un minimalismo esistenziale insensibile a ogni sirena sovraindividuale, erano semplicemente impubblicabili. Solo nel 1970, dopo la comparsa delle Memorie, si capì che quel minimalismo traeva origine dalla sua tragica esperienza di sopravvissuto, reduce dalle «tre distruzioni di Varsavia»: quella del settembre 1939, di cui aveva solo sentito parlare, perché allo scoppio della guerra i genitori lo avevano portato via da Varsavia; quella di aprile-maggio 1943, la liquidazione del ghetto, che aveva solo visto, perché si trovava nella parte «ariana» della città; e quella di agosto-ottobre 1944, che aveva infine vissuto in prima persona.

Fragili fatterelli

La distruzione totale della capitale polacca non è solo un fatto materiale di portata locale, ma un evento simbolico che equivale alla disintegrazione di una intera civiltà. All’arte tutta – come alla filosofia e alla religione – sarebbe stata imputata la complicità con i distruttori, per avere anestetizzato l’uomo con una mistura di idee nobili ma alla prova dei fatti illusorie: belli, meritevoli di essere vissuti, apprezzati, immortalati sono i «fatterelli» di cui scrive il sopravvissuto, piccole cose, fragili come l’uomo stesso.