Il Cile ha un posto speciale quest’anno al festival di Cannes per il documentario Allende, mi abuelo Allende (Allende, mio nonno Allende) di Marcia Tambutti, figlia della deputata Isabel Allende. Partecipa alla Quinzaine des Réalisateurs, la stessa sezione dove negli anni passati fecero scalpore No di Pablo Larrain e La danza della realtà di Alejandro Jodorowski.
Marcia Tambutti, giovane biologa esperta di biotecnologie non ha mai vissuto in Cile, è cresciuta a Città del Messico in esilio con la madre ed è ritornata nel paese per svelare il lato oscuro della sua vita e della sua famiglia. Il processo della memoria che nei paesi latinoamericani colpiti dalle dittature è stato lento e doloroso e solo da pochi anni è emerso nelle forme più varie tocca adesso una vicenda molto personale che la regista ha potuto dipanare solo in otto anni di ricerche e incontri.

Chi era l’uomo Allende? Aveva già avuto modo di saggiare la riservatezza della famiglia quando collaborò con Carmen Luz Parot al documentario sulla nonna Hortensia Bussi, «maestra dei silenzi». Ha cominciato a interrogare quei silenzi per raccontare non la vita politica del nonno su cui tanti hanno realizzato documentari, ma la sua vita intima. «Volevo sapere come era la mia famiglia prima della morte di mio nonno», dice. Non è stato facile realizzare questo ritratto personale perché in famiglia non si parlava mai della sua vita privata né del suo tragico passato.

Mentre si poteva parlare della vita politica, della sua lotta per i diritti umani, mettere in evidenza la sua vita privata sarebbe stato come parlare della sua morte, un dolore che non si voleva affrontare. Abbiamo visto Marcia Tambutti insieme alla madre Isabel alla televisione cilena che trasmise nel 2011 la cerimonia dell’esumazione di Allende nel corso del processo per stabilire la causa della sua morte («prese la decisione di morire come gesto di coerenza politica in difesa del suo mandato» dichiarò Isabel in quell’occasione.

Che nella società cilena siano duri a morire gli attacchi della destra alla figura del presidente è evidente se ancora oggi La Tercera, il quotidiano popolare incline al gossip pone alla regista domande che facevano parte del sistematico tentativo di infangare l’immagine di Allende. Si chiede a Marcia Tambutti se ha toccato il tema di Allende come gran seduttore (ancora oggi si sente nei salotti della borghesia bigotta commentare, «era un mujeriero» era un donnaiolo). «Era galante, senza dubbio, risponde Tambutti, un seduttore in senso lato capace di portare dalla sua parte perfino i militari. Io ho cercato di affrontarlo in maniera più profonda, senza fare del pettegolezzo. Esiste di lui un’immagine falsa come fosse stato un James Bond, ma non è così».

E insiste il cronista a chiedere pettegolezzi sulla segretaria, ma l’elegante risposta è che lei non ha certo chiesto cose del genere a sua nonna. Ma gli attacchi dell’estrema destra sono iniziati fin dall’inizio della presentazione del progetto: nel 2008 il deputato Moreira dell’Udi, il partito che appoggiava Pinochet, ora neoliberista sferrò un attacco per la quantità di denaro che la Corfo(la corporazione per lo sviluppo delle produzioni) elargiva ai documentari dedicati ad Allende già da 18 anni «cercando di rendere onore a una figura che è stata al contrario il principale responsabile della disfatta democratica del Cile» invece di sostenere le imprese competitive sul mercato.
Un riconoscimento alla nuova onda del cinema cileno soprattutto documentario è senz’altro Chile Factory, un laboratorio in cui sono stati scelti quattro registi cileni selezionati su 70 e che hanno già fatto parlare di sé: sono Ignacio Rodriguez premiato a Toulouse dalla Fipresci e a Pesaro nel 2013, Manuela Martelli premio come miglior attrice all’Havana con quattordici film al suo attivo da Machuca di Andres Wood a Il futuro film italiano di Alicia Scherson, Teresita Ugarte classe 1991, Matìas Rojas Valencia premiato a San Sebastian nel 2013 per il suo corto Root. A loro sono stati affiancati quattro cineasti provenienti da vari paesi come Sara Rastegar attrice e regista franco iraniana, Amirah Tajdin artista e regista (Kenia, Dubai), la giapponese Mariko Saga che ha studiato cinema a Lodz, Raoul Grazier che proviene da Israele. I loro corti realizzati insieme formeranno Chile Factory programmato il 14 maggio.
A parte la forte presenza in giuria rappresentata da Guillermo Del Toro, nel programma di Cannes l’unico film latinoamericano in concorso è il messicano Cronic di Michael Franco, dramma psicologico di un infermiere che assiste malati terminali interpretato da Tim Roth. L’attore era stato anche l’interprete di 600 Millas prodotto da Michael Franco e diretto da Gabriel Ripstein, figlio del grande Arturo Ripstein, un film sul traffico d’armi tra Messico e Usa, premiato a Berlino. Altro film messicano, cinematografia oggi in grande ascesa, al Certain Regard è Las elegidas di David Pablos, il traffico di donne con storia d’amore tra due adolescenti, con attori non professionisti, prodotto da Diego Luna, Gael Garcia e Pablo Cruz. E messicana è anche Salma Hayek che sarà a Cannes nel cast di Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. A Un Certain Regard è infine presente la Colombia con Alias Maria di José Luis Rugeles, protagonista una guerrigliera di tredici anni e El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra (in coproduzione con Venezuela e Argentina).