Intervista doppia con Giovanni Basso e Giorgio Colangeli, rispettivamente regista e attore protagonista di Mindemic, che sta navigando a vista tra le sale di Milano, Roma, Ferrara, Bologna, Pescara e Torino. Sullo schermo va in scena la vicenda di Nino (Colangeli), regista di fama dei tempi che furono e oggi «sul viale del tramonto», cui viene commissionata da un vecchio compagno d’armi, suo storico produttore, la sceneggiatura-capolavoro d’una vita intera, ma alla condizione di scriverla in soli tre giorni. Qualcosa andrà storto.

«Mindemic» è un meccanismo di senso aperto, che instilla il dubbio sulla reale consistenza degli eventi e programmaticamente non cerca una verità unica e incontrovertibile
G.Basso: Ho disseminato il film di piccole «trappole» che possano ogni volta rimettere in dubbio le certezze dello spettatore. Situazioni legate alla tecnologia, come i fermo immagine «freezzati» con cui si interrompe ogni sua conversazione on line che possono far pensare che stesse solo guardando alcune vecchie fotografie, lo schermo nero del computer che vediamo dopo che sbatte un pugno sul tavolo, che ci fa chiedere se la conversazione appena vista sia avvenuta davvero o se il computer non fosse spento sin dall’inizio, o lo schermo del cellulare che vediamo spento durante le sue telefonate e altre cose così. Sono tutti elementi che possono essere interpretati tanto in un modo che in un altro. Dipende tutto da dove pendi tu, perché il meccanismo filmico in sé è concepito all’insegna della doppiezza, e lo spettatore può scegliere cosa credere».

Un progetto creativo-produttivo del tutto autarchico, pensato al di fuori di qualsiasi logica ’burocratica’ di finanziamento pubblico
G.Basso: Non ci sarebbero stati neppure i tempi tecnici per fare le domande per i contributi, attendere il parere del Ministero, ecc. ecc., perché tra quando ho ultimato la sceneggiatura e l’inizio delle riprese non sono passati nemmeno tre mesi, ma comunque non c’era proprio interesse a chiederli perché per questo progetto l’unico modo che mi sembrava adeguato era proprio quello a costo quasi zero che ho adottato: pochi attori e poca crew, nemmeno quindici persone in tutto, un cellulare per girare. Poi non è che tutto il cinema debba e possa farsi così, anzi».

In questa parsimonia di mezzi, di attori soprattutto, la parte più cospicua della performance finisce per gravare sulle spalle dei pochi disponibili, su quelle di Colangeli, in particolare, che da vero istrione e mattatore offre voce e corpo a quattro creature diverse, Nino, il personaggio principale e tre delle identità-personaggio che interpreta durante il processo creativo
Colangeli: Ho seguito due linee di ricerca distinte, una realista, per il Nino, persona reale, credibile, e l’altra, decisamente più espressionista, più legata all’emersione, della fantasticheria o forse di ciò che sta a cavallo tra creazione e follia e che poi si traduce nell’utilizzo di un repertorio micromimico e vocale tutto più accentuato, iperbolico. Io ho lavorato scena per scena, che se vuoi è una modalità più teatrale perché in teatro, non potendoti rivedere non hai mai la verifica sulla continuità, ed era Giovanni, che avendolo scritto e curando anche l’edizione sapeva indirizzarmi nel creare la continuità tra le varie scene. Anzi spesso ho potuto comprendere solo a posteriori il significato che il modo con cui avevo interpretato certe scene conferiva loro nel disegno complessivo».

Attore solido Colangeli, stacanovista della fatica
Colangeli: certo, che c’è la fatica. Io per il cinema ho fatto anche il macchinista, l’attrezzista, e arrivavi a fine giornata che eri davvero distrutto…ma mi sono sempre divertito. Entrare nel merito anche materiale di queste diverse professionalità più tecniche e invisibili per il pubblico mi ha insegnato quanto sia privilegiato, creativo e visibile il mio lavoro, quindi se c’è anche una componente di fatica la accolgo col sorriso, perché non scordo quei molti che fanno solo la parte faticosa del lavoro.

Quello tra regista e attore, in questo caso è stata una forma di feconda interazione creativa
G. Basso: La sceneggiatura era un blocco compatto e chiuso, ma via via che il personaggio prendeva vita attraverso il corpo e la voce di Giorgio, si andava trasformando, arricchendo di mille nuove sfumature psicologiche e caratteriali che come sceneggiatore non potevo vedere, e che invece un attore del calibro di Giorgio sa fare emergere a volte con un nonnulla, una luce particolare nello sguardo, un microgesto quasi impercettibile. Non accettare queste cose solo perché non scritte da me sarebbe stato un errore, almeno credo.
Colangeli: Ero del tutto consapevole di dover consegnare al regista una specie di semilavorato che non andava utilizzato così com’era, ma che doveva essere ulteriormente manipolato e sottoposto a tagli…. Per mia fortuna, poi, questo non è uno di quei film che usa il montaggio fricassea fatto di pezzetti piccoli piccoli, anzi, erano sempre scene di una certa durata che lasciavano spazio e tempo per recitare.

Il montaggio, come tutto il film, è doppio, da un lato recupera la memoria griffittiana del montaggio come strumento per la ricostruzione credibile della realtà, e infatti la messinscena è del tutto realistica nelle modalità di rappresentazione dello spazio e del tempo, ma da un altro lato subisce anche l’ancestrale retaggio del cinema come effetto speciale tipico di Méliès, cinema che moltiplica i corpi e le identità, mette in dubbio il reale, crea il fantastico
G.Basso: La mutazione di Nino è sempre sia psico-fisica che filmica, cambia lui e cambia il modo di cinematografizzarlo. Per tutti i primi trenta minuti il processo creativo è ancora sotto controllo, Nino è ancora uno solo, tanto che le scene in cui interpreta più personaggi sono riprese in modalità teatrale.
E, infatti, sono filmate in un unico campo fisso, come uno spazio teatrale, in cui è Colangeli, unico corpo presente in scena, che spostandosi continuamente tra il centro e i due margini laterali del quadro e simulando tre diversi accenti regionalistici fa esistere, un comandante, un soldato del nord e un soldato del sud, che potrebbero essere anche un garbato omaggio metafilmico all’infinita galleria di soldati semplici immancabilmente veneti, siculi, calabresi o romani, ecc. che hanno popolato il nostro cinema dal Neorealismo, passando attraverso le commedie da caserma degli anni ’70 e arrivando sino ai giorni nostri.

Le varie identità sceniche in questa fase sono ancora vincolate al corpo attorico che le inscena e senza il quale non esisterebbero, quello di Colangeli.
G. Basso: A tratti volevo che il modello registico fosse apertamente teatrale e che il montaggio interagisse il meno possibile con la performance di Giorgio, poi, per gradi, ho fatto subentrare una modalità di regia più cinematografica, più basata sui tagli e su un montaggio che via via moltiplica le visioni del corpo e quindi le identità di Nino.
Nino sta scrivendo mentre attende una prostituta. Recita ad alta voce le battute dei vari personaggi mentre le scrive. All’improvviso interviene uno stacco, un taglio di montaggio, appunto, che introduce una nuova inquadratura che però ci spiazza dato che non ritrae Nino, l’unica persona che sapevamo essere nella stanza, ma il comandante, quindi uno dei personaggi che prima esistevano solo nella sua fantasia, il quale con grande naturalezza controbatte a quanto Nino stava dicendo.
G.Basso: Nel momento in cui anche i personaggi immaginari diventano soggetti di inquadrature a loro dedicate e queste sono montate in normale montaggio alternato con quelle del corpo reale di Nino, le tre diverse identità sceniche acquisiscono una esistenza separata, diventano reali quanto lui.

L’ultimo stadio di questa moltiplicazione filmica e psichica della persona, e qui siamo veramente dalle parti di [«L’Homme Orchestre» di Méliès è l’inquadratura in cui una vorticosa rotazione (panoramica circolare) a 360° mostra tutte in unico quadro le molteplici identità di Nino, tutte ormai compresenti nella sua mente, come nell’immagine.

G. Basso: La dissoluzione dell’identità individuale di Nino avviene per frammentazione e moltiplicazione, si divide in sempre più pezzi, un numero crescente di immagini che la rendono molteplice, sempre più molteplice, dato che il ritmo della sua trasformazione cresce di atto in atto sino a divenire frenetico nel quarto. Fintanto che c’è il montaggio tra inquadrature diverse queste immagini moltiplicate si alternano una per volta sullo schermo, sono molte, ma ancora separate, alla fine però questa separazione cessa e le varie identità diventano tutte compresenti, tutte simultaneamente esistenti nella stessa inquadratura che ce le mostra a 360°, in una sorta di accerchiamento da tutti i lati. Ma un’identità che non è più una, unica, che identità è? Come può ancora «identificarci» in quanto individui? In questo senso la moltiplicazione è anche la forma della sua dissoluzione.