È riesplosa la crisi nelle Filippine Sud, dove i ribelli islamici del Fronte Moro di Liberazione Nazionale (Mnlf), asserragliati nell’area circostante Zamboanga, città nell’estremo Sud dell’isola di Mindanao, tengono sotto scacco da dieci giorni l’esercito di Manila. L’attacco militare dell’esercito, disposto in fretta e furia dal presidente Benigno Aquino jr, ha provato in pochi giorni 100mila sfollati e circa 100 morti, fra ribelli, soldati e civili. Secondo fonti dell’esercito la vicenda si avvia alla conclusione, dato che i ribelli sono stati confinati in alcuni sobborghi costieri, dove ancora oppongono resistenza, mentre due giorni fa la maggior parte degli ostaggi, tutti civili usati come scudi umani dai militanti, ha riabbracciato le famiglie. Tuttavia, l’episodio rischia di lasciare un segno profondo, riportando molto indietro le lancette dell’orologio della pace.

Voleva essere «una azione dimostrativa», quella promossa dai guerriglieri islamici del Fronte Moro, che ha sconvolto la «città dei fiori», Zamboanga, perla delle Filippine meridionali. Oltre 200 uomini armati avevano preso, con una incursione improvvisa, un’intera area della città, sequestrando oltre 100 civili e provocando la fuga e lo sfollamento di 2.000 famiglie. Nonostante i disperati tentativi delle Ong di trovare un canale di comunicazione con i ribelli, la risposta del governo è stata tempestiva e unilaterale: l’opzione militare. L’escalation è stata inevitabile e subito le isole circostanti, come Basilan e Jolo, si sono infiammate di protesta, mentre i terroristi del gruppo Abu Sayyaf cercavano di approfittare dell’instabilità.

Risulta, così, devastante l’impatto sulla fragile società delle Filippine sud, dove vive una consistente minoranza islamica di oltre sei milioni di abitanti, concentrata in alcune province dove è maggioranza, rispetto alla compente di civili cristiani e di indigeni. Il paziente lavoro di tessitura per una convivenza armoniosa fra gruppi differenti per etnia e religione è andato in fumo, lamentano le oltre 50 Ong locali riunite nel forum «Mindanao peace weavers». Stesso dicasi per un accordo di pace siglato solo pochi mesi fa tra il governo e l’altro gruppo ribelle, Fronte Moro di liberazione islamica (Milf), che rischia di essere «carta straccia» prima di essere ratificato. Quello che si rimprovera al governo Aquino è il frettoloso ricorso alla forza militare, lanciata con proclami azzardati. Le cicatrici che lascia sul terreno un’azione militare in grande stile, condotta anche con elicotteri e attacchi aerei, sono invece profonde e difficili da rimarginare.

Eppure di segnali eclatanti il Mnlf ne aveva dati diversi, negli ultimi mesi, proclamando perfino, nel disinteresse generale, «uno stato islamico delle Filippine». Il gruppo, che si vanta di essere la prima formazione organizzata dei musulmani delle Filippine sud, oltre trent’anni fa avviò le prime azioni di protesta e di guerriglia, rivendicando autonomia per una regione che resta la cenerentola della nazione, a livello di sviluppo economico, sciale e umano. Dopo decenni di scontro frontale con la dittatura di Marcos, il Fronte aveva finalmente siglato, nel 1996, uno storico accordo di pace che prevedeva l’istituzione della Regione autonoma musulmana di Mindanao. Il suo leader, Nur Misuari, ne era divenuto il primo governatore e molti militanti si erano integrati nella polizia di stato. L’accordo era stato però sconfessato dal Milf che, forte di 30mila uomini, aveva proseguito la guerriglia. Circa 20 anni dopo, proprio con gli islamici del Milf il governo Aquino era sceso a patti, cambiando, di fatto, i connotati al precedente accordo stipulato con il Mnlf. Il gruppo si sente, allora, emarginato e tradito e, per riconquistare un posto al sole, passa all’azione. La soluzione, secondo gli osservatori, può essere «un accordo di pace inclusivo», che tenga conto di tutte le realtà sul terreno. Ad Aquino il prossimo passo.

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