Candidato all’Oscar nella sezione dedicata ai documentari, Last Men in Aleppo del regista siriano Feras Fayyad testimonia la guerra in Siria attraverso l’operato dei caschi bianchi anche se – come ha detto il regista – «Il film assume la prospettiva di una persona. Riguarda un siriano combattuto tra la responsabilità verso la sua comunità e quella verso la sua famiglia».

Arrestato e torturato in Siria in quanto sospettato di essere una «spia dell’occidente», Feras Fayyad – che con il suo documentario ha anche vinto il Gran premio della giuria al Sundance dell’anno scorso – ha raccontato ieri al «Guardian» di essere oggetto di una campagna denigratoria da parte del governo russo e di quello siriano, che attraverso delle agenzie di stampa e dozzine di profili su Facebook e Twitter accusano il suo lavoro – incentrato appunto sui controversi caschi bianchi – di «propaganda finanziata dai governi occidentali» e di essere un «film promozionale di Al Qaeda».

Fayyad è stato anche accusato personalmente di essere un simpatizzante dei terroristi, e sono state rese pubbliche delle immagini della sua famiglia e dei suoi amici prese dai social network.
«È come se la Russia volesse interferire con gli Oscar come già ha fatto con le elezioni americane», ha detto Fayyad al «Guardian», aggiungendo di essere a questo punto addirittura spaventato all’idea di vincere la statuetta al miglior documentario: «Ho paura di quello che dovremmo affrontare». In Medio Oriente, ha spiegato, il sospetto che lui possa essere una spia «farebbe sì che le persone non si fidino più di me, se pensano che io raccolga informazioni per l’Fbi».