«Mio padre era un re». Non è l’inizio di una favola ma il monologo di una delle detenute del carcere di Vigevano. Storie personali adattate a una messa in scena teatrale non convenzionale, un teatro «pensato per chi lo fa e non per chi lo vede». Sono parole di Mimmo Sorrentino, che ha condotto un laboratorio di teatro partecipato con otto donne che scontano pene dure per associazione mafiosa: camorra, ’ndrangheta e così via. Lo spettacolo che ne è il risultato si chiama L’infanzia dell’alta sicurezza ed è stato messo in scena in carcere per ben 25 volte, attirando un pubblico di oltre 2000 spettatori «grazie al solo passaparola, senza neanche usare Facebook o cose del genere» racconta il regista che in passato ha lavorato anche con i malati di Alzheimer, i medici, gli studenti.
Il principio dei laboratori è sempre quello del teatro partecipato che nasce da un incontro: «È un rapporto d’amore tra il racconto e la parola. Parte dal piacere di ascoltare». Perché quando si va in questi luoghi non si sa assolutamente nulla di chi si incontrerà: «Le detenute non mi hanno scelto, come io non ho scelto loro. La scelta viene dopo, deriva dall’incontro. Quello che accade nel teatro partecipato è una accensione del desiderio».
Oggi L’infanzia nell’alta sicurezza uscirà dalle mura della prigione per arrivare all’Università Statale di Milan ((Aula Magna, ore 20.00, prenotazione obbligatoria: www.unimi.it/eventir/registrazione), dove le detenute grazie a un permesso speciale potranno mettere in scena questi monologhi che riguardano la loro infanzia, le loro famiglie, le loro esperienze private. Mai però quelle di chi le racconta: tutte le storie infatti vengono scambiate di donna in donna, andando a scavare in un passato condiviso fatto di violenza e di sinceri rapporti affettivi, di rigide strutture familiari e del ricordo di una vigilia di Natale.

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Cosa vuol dire un teatro pensato per chi lo fa e non per chi lo vede?

Nella maggior parte dei casi lavoro in contesti disagiati. Il committente, che può essere il preside di una scuola come il direttore di un carcere, mi chiede innanzitutto di pensare un’attività che faccia bene a chi partecipa. Quindi la mia prima preoccupazione non è realizzare un teatro di tipo estetico, ma che funzioni per chi lo fa.

Come si è svolto il laboratorio?

Ho lavorato con detenute di alta sicurezza: persone fortemente strutturate, vissute in un mondo regolato da rigide norme, che non è quello dello stato ma della violenza. Entrare in contatto con loro è stato difficile. Durante il primo incontro si sono avvicinate e mi hanno detto che volevano recitare Filumena Marturano. Ho detto loro che forse quello era meglio lasciarlo alle attrici, che io lavoro sul vissuto delle persone. Allora una si è alzata e mi ha detto: «Guarda che io i fatti miei non te li voglio raccontare», ma questa dichiarazione parlava già da sé. La voglia di raccontarsi c’era, il problema era riuscire a stabilire come. Poco alla volta lo abbiamo capito e loro hanno cominciato ad aprire i cassetti della loro esistenza. Ne è venuto fuori un ottimo materiale, che pure se legato a donne particolari, messe in condizioni di vita difficili, parla in realtà di tutti noi. Il loro rapporto col padre, quello con la «norma», sono qualcosa che ci riguarda. Per questo motivo dopo pochissimo tempo gli spettatori si dimenticano che sono detenute, vanno oltre. Molti alla fine dello spettacolo mi chiedono: «Non potremmo aiutarle anche economicamente?». Ma loro sono miliardarie!

Come date forma alle storie raccontate?

Il linguaggio non coincide mai completamente con la persona, e questo non succede solo a loro ma a noi tutti. Quando parliamo non siamo mai esattamente noi stessi: c’è uno iato. Così mentre una di queste donne parla io mi inserisco in questo iato, e porto alla luce tutta un’altra parte del discorso che mi ha fatto senza esserne consapevole. Ma non è qualcosa di autoreferenziale, tanto che nessuna recita la sua parte. La cosa incredibile è che tutti le confondono con quello che recitano, ma non è così: ci sono perfino i racconti di persone che per vari motivi non sono neanche venute in scena.

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Da cosa nasce la scelta del titolo: «L’infanzia nell’alta sicurezza»?

Nella maggior parte dei casi le storie delle detenute rimandano alla loro infanzia che paradossalmente è stata molto tutelata. Una di loro dice che a undici anni aveva il motorino e poteva girare nel quartiere come più le piaceva, nessuno poteva dirle nulla. Fa riferimento al padre come a un re, perché in queste famiglie il padre ha veramente un ruolo centrale, sono molto patriarcali. Ma a un certo punto si è resa conto che nel lavoro che facciamo insieme lei non è una principessa.

Quello delle detenute è un passato fatto di norme, ma anche il carcere è un posto fortemente strutturato.

La cosa paradossale è che il sistema normativo del carcere coincide con il loro ambiente di provenienza: sono entrambe delle strutture totalitarie. Nel lavoro che ho fatto è servito considerare gli agenti di polizia penitenziaria come delle persone che stanno lavorando, che vivono in una condizione tutto sommato simile alle detenute. Interventi come il mio funzionano se sono sistemici, se si opera cioè sul sistema che regge il contesto, infatti lavorerò anche con le guardie carcerarie. La cosa bella è che, ora che le detenute escono dalla prigione per fare lo spettacolo sono state loro stesse a chiedere agli agenti di andare insieme a loro.