No comment sull’Adrian celentivù : le distanze dal nuovo show molleggiato, le aveva prese subito con un post su Facebook (« Al progetto di serie animata avevo partecipato 10 anni fa, con studi di personaggi e storyboard : disegni in funzione di future animazioni, che, non per mia decisione, sono stati usati in altro modo »). Ma il resto – le amicizie con Fellini, Pratt, Pazienza, Wolinski, Jodorowsky e l’inevitabile tasto dell’eros di carta –, è un diluvio d’aneddoti affettuosi o di ironiche rivelazioni : « Finalmente si accorgono che io non sono solo erotismo ‘a strisce’. Quando ritraggo una ragazza, disegno con cura anche la sua sedia, la sua finestra. Mai nessuno che si accorga della sedia o della finestra. Tutti vedono solo la ragazza. E nessuno mi prende per quel che sono : un disegnatore di sedie e finestre … ». Reduce da Angoulême, kermesse annuale dei grandi del fumetto, che gli ha dedicato una bella mostra per i suoi 50 anni di carriera a matita (iniziata nel 1969 con storie d’eros-noir, emule di Diabolik, per la collana Genius), frangetta bianca che innaffia i suoi prossimi 74 anni, Milo Manara si ripercorre o ‘si ridisegna’ all’Institut Italien de Culture a Parigi, sollecitato dall’amico Claudio Curcio, direttore del Comicon primaverile di Napoli, partendo dall’amante perduta o, meglio, ripudiata : la pittura. Ma l’arte, come una donna gelosa, gli è sempre attorno, invade le sue fantasie e ne guida le matite. Ai suoi labirinti sensuali è inevitabile assimilare ora una mostra di straordinaria levigatezza e epidermica docilità, ‘Posa e variazioni’, evento invernale della Fundaçao Calouste Gulbenkian di Lisbona. Una mostra-Manara senza Manara, fitta di una progenitura inattesa, solida (sono sculture d’area-Rodin) e lattea (superfici da leccare con lo sguardo) : Puech e le sue ali angeliche (come in tante silhouettes di Manara), la Baigneuse di Dalou, terracotta di grazia botticelliana, le evanescenze d’alabastro di Carpeaux e, naturalmente, il Rodin più liscio e esclamativo. Tutte bellezze adolescenziali, maschili e femminili. Una danza di corpi in festa e in simbiosi, sospinti dal vento, dal desiderio o accoccolati, sesso in attesa. Come la Brigitte Bardot, ora esposta a Saint Tropez, su modello disegnato da Manara. Posa, senza variazioni. L’artista è largo nelle sue preferenze : « L’arte per me è come un mappamondo che gira : lo blocco a caso con un dito, e lì c’è l’artista che adoro. Van tutti bene ».

Anche il suo attuale Caravaggio, la tavolozza e la spada è un’affinità per caso ?

Ho ridisegnato a mano, uno per uno, i dipinti di Caravaggio, senza ricorrere alla riproduzione elettronica : una forma di rispetto per un grande dell’arte, che le biografie ci restituiscono come uomo tormentato, ma io che ho conosciuto altri grandi artisti sono sicuro che non era così. Caravaggio era un cineasta, un illustratore di idee. La morte della Vergine, ora al Louvre, era stato condannato al rogo, perché ritenuto eretico. Fortunatamente Rubens l’ha rubato, salvandolo, facendolo finire al Louvre. Tutti contenti di ritrovarlo lì.

Il suo Caravaggio ha le sembianze di Andrea Pazienza. Perché ?

Perché Pazienza, come Caravaggio, non distingueva tra vita e arte : l’arte era la sua vita, la sua vita era infiammata dall’arte. Come una candela che bruci dai due lati : ha più fuoco, più luce, ma si consuma più in fretta. Come Alessandro Magno, morto giovane, dopo una parabola altissima. All’estero, Pazienza diventerà famoso quando troverà un buon traduttore : perché non solo le sue immagini, ma i suoi testi sono sorprendenti, spesso con giravolte idiomatiche, difficili da rendere in un’altra lingua.

Di Caravaggio l’ha dunque attratta soprattutto l’avventura febbrile. Ma a quale pittore si sente più vicino per lo stile ?

Botticelli. È un precursore del fumetto, un maestro rinascimentale della ‘ligne claire’, alla Tintin. Ha illustrato la Divina Commedia, con tavole che esprimono la sua concezione pittorica, di origine platonica : arte non realistica, che parla non agli occhi ma alla mente. Quel che poi teorizzerà Magritte con i suoi dipinti, tra cui il quadro-manifesto Ceci n’est pas une pipe. Botticelli lavorava già così, il suo mondo figurativo non è illusionistico, la sua Nascita di Venere è pura metafora.

In un disegno, lei viene rimproverato da Leonardo, che l’ha colto in fallo…

Sì – ride Manara –, il disegno è di Federico Fellini. Mi rappresenta come una ragazzo ‘a bottega’ che, in assenza del Maestro, si diverte a inserire figurine osées tra le immagini celestiali. Fellini era convinto che questo fosse il passatempo preferito dei giovani assistenti nelle botteghe dei grandi pittori rinascimentali.

È di 30 anni fa – luglio1989, su Corto Maltesela prima pubblicazione in tandem con Fellini : com’è iniziato Viaggio a Tulum ?

Era un soggetto di Federico, per un film da fare. Ci eravamo conosciuti 5 anni prima. Lui mi aveva invitato sul set di Ginger & Fred. Avevo appena pubblicato un fumetto, Senza titolo, che si concludeva con un ‘Senza fine’, che l’aveva molto colpito, perché, come mi ha poi spiegato, da bambino provava un gran dispiacere a leggere la parola ‘fine’, al termine d’un film : voleva che l’illusione del cinema fosse senza durata e infatti in nessuno dei suoi film troverete mai la parola ‘fine’. Con Fellini c’è stata subito un’intesa assoluta : sarà perché anche lui era partito come disegnatore e sceneggiatore. Avrei voluto lui come protagonista, ma ha preferito che fosse il suo alter ego Marcello Mastroianni.

Come avete lavorato insieme ?

Insieme ? Ma l’autore è lui, io sono stato solo l’esecutore. Aveva disegnato l’intero storyboard. E mi chiedeva di vedere le mie tavole una per una : dovevo farne una prima copia, lui correggeva testi e immagini, poi potevo ‘licenziare’ la versione definitiva. Da bravo cineasta, sentiva spesso la mancanza della luce nelle mie esecuzioni. Perciò, quando l’aereo atterra davanti alla cattedrale, ho tenuto la cattedrale nera, com’è a Colonia, rendendo bianco l’aereo. ‘No, Milone’ (mi chiamava Milone), è l’areo che dev’essere nero, perché è Caronte, trasbordo dei morti’.

Il suo Fellini a fumetti continua con lui nel 1992 con Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet e, dopo Fellini, nel 1999 con L’asino d’oro.

Ho reimmaginato Apuleio come un universo felliniano, riadottando la tecnica del Mastorna, tutta luci e ombre, e rielaborando invenzioni visive e intuizioni del Satyricon, che Fellini diceva d’aver girato come un film di fantascienza, essendo impossibile documentare la società romana a.C.

Il ping-pong fumetto/cinema era già cominciato nelle collaborazioni con Hugo Pratt.

È Pratt che mi ha obbligato a esprimermi su ‘striscia’ e non su tavola. Il fumetto, diceva, è uno schermo : lo schermo del cinema non cambia dimensione se appare un primo piano. L’Estate indiana, mia seconda collaborazione con Hugo, dopo la saga di Giuseppe Bergman (è stato lui a spingermi a realizzarlo, trovando pure il nome del mio alter ego), rappresenta anche il mio passaggio alle tre strisce, in cui Pratt suddivideva la pagina. Ma è stato soprattutto un periodo di grande gioia creativa, tra disegni e bevute a non finire. Ne ho una grande nostalgia. Hugo, di Venezia, non guidava. Ero io che lo scarrozzavo per tutta l’Europa, anche a Angoulême quando gli han dato un premio.

Come vi siete conosciuti ?

A Lucca Comics, all’epoca della Ballata del mare salato, che avevo appena scoperto e subito idoleggiato. La sua prima domanda, quando l’ho finalmente incontrato : Hai la patente ?