Nel 1973, tra le altre cose piccole e grandi, effimere o epocali, in Italia, Enrico Berlinguer tiene un discorso in cui parla di «austerità», Léopold Sédar Senghor presidente amatissimo del Senegal visita la Penisola, viene rapito a Roma Paul Getty Jr, il figlio dell’uomo più ricco del mondo, nascono i Cristiani per il Socialismo a Bologna, muore Anna Magnani. E, dato niente affatto ininfluente, per diverse generazioni di musicofili schierati dalla parte del rock e del torto, Riccardo Bertoncelli pubblica con l’Arcana Pop Story, primo esempio italiano di mappatura critica e curiosa del mondo del rock. Che ancora, si noti bene, i cultori chiamavano «pop», per distinguerlo dalle contorsioni elvispresleyane e dalle schitarrate fine a se stesse più plateali a bagno nelle note «leggere»: non immaginando che, decenni dopo, «pop» avrebbe avuto significato esattamente contrario, ad indicare la patina commerciale, e non lo spessore di ricerca. Oggi Bertoncelli è direttore editoriale, insegna all’Università di Milano, continua a scrivere su un bel mazzo di testate, e da quell’archeologico 1973 acqua sotto i ponti delle note «popular» ne è passata talmente tanta che forse i ponti stessi non esistono più. Se non come ricordi spesso cristallizzati in vaga o (a seconda dei casi) dettagliatissima nostalgia.

Ma Riccardo Bertoncelli, imperterrito, ha continuato a ficcare il naso e le orecchie nelle pieghe della «popular music» più inquieta, di quando in quando in quando rielaborando e raccogliendo in volume quanto non aveva proprio la stoffa per morire di inedia o di fretta sulle pagine di un giornale buono, come diceva il nostro Pintor, «per incartare il pesce del giorno dopo». Perché poi in fondo la storia del rock è questa: un bombardamento saturo di watt sempre sincronizzati sul presente, con un grande avvenire alle spalle, e dal quale è difficile trarre polpa sostanziosa storiografica, al di là della facile aneddotica buona per riempire, come si diceva un tempo, «due cartelle» tipografiche.

Quasi mezzo secolo dopo Pop Story, Riccardo Bertoncelli da Novara fa uscire per Giunti un altro dei suoi libri più importanti, fatta la tara sul ponderoso e poderoso mammuth Gli anni d’oro del rock che occupavano milleduecento facciate, più o meno lo spazio di quattro libri. Un testo importante, si diceva, proprio per l’argomento trattato. Ed un titolo che dovrebbe mettere in preallarme un paio generazioni di rocker con il gusto della ricerca mirata: Topi Caldi / Frank Zappa e altri bei malanni. È un Bertoncelli che torna sul luogo di mille delitti perfetti ai danni della musica accomodante e banale, e dà un degno seguito a Paesaggi Immaginari, il suo libro diretto predecessore.

Dunque, qui, troverete ancora fulminanti approfondimenti su Zappa e Captain Beefheart, Dylan e Robert Wyatt, Patti Smith e i Can teutonici. E fin qui tutto bene: giustamente Bertoncelli rivendica lo scavo e lo scarto laterale tra vita e opere di gente che ha scritto i vocabolari eretici e «mainstream» al contempo della storia del rock. Però qui ci sono anche Skip James, Augustus Owsley Stanley, l’uomo che regalò i simboli ai Grateful Dead, John Cage e John Fahey, Mingus, Sun Ra, Mulatu Astatke, Hal Willner. E tanti altri ancora. Frastornante? No, educativo. Almeno, se queste pagine capiteranno sotto gli occhi e le mani di un diciottenne, complice anche un copertina che aiuta a farsi notare, con la buonanima acida di Zappa, aiuteranno a distinguere il grano dal loglio.

E a dar prospettiva diacronica e tagli temporali ben dati (e ben scritti, il che non guasta) a quanto oggi, in un’era di informazione immediata con un «click» e sindrome da Wikipedia appare piatto e sul medesimo, asfissiante orizzonte sincronico, senza un «prima» e un «dopo» che costruiscano storia e memoria.