Quello che leggete qua sotto è stato scritto di getto il 30 settembre 1991 e inviato alla redazione de il manifesto ma non pubblicato. Accompagnavano il fax queste parole: «Se altri colleghi hanno già scritto, cestinatelo pure. Ho avuto il bisogno di scrivere per ‘razionalizzare’ il dolore. A presto». A distanza di trent’anni, il pezzo mette a fuoco alcuni elementi valutativi ormai consolidati, pur conservando la dolente emozione causata da una scomparsa traumatica per chiunque amasse il jazz.
Un pugno nello stomaco che ti stende, duro, al tappeto. La morte di Miles Davis, che tanto amò la boxe, sabato scorso (28 settembre 1991) in California – in un ospedale di Santa Monica, per complicazioni polmonari – ferisce e addolora violentemente.
Se c’erano stati segnali di declino fisico (con esibizioni estive sempre più brevi e il ricovero all’inizio di settembre), Davis non aveva smesso di incarnare e sostanziare il ruolo «titanico» del musicista, del creatore che sfida (e vince) con straordinaria lucidità lo scorrere del tempo. Il jazz è una musica che si identifica immediatamente con la vita e con l’oggi, con l’«hic et nunc», e il trombettista afroamericano ne ha rappresentato, per certi versi, l’essenza.
Dopo il dolore bruciante per la sua morte, comunque immatura, subentra il «silenzio», quello che nella sua musica palpitava e brillava al pari delle note fin dal 1945.

DOLORE BRUCIANTE
Miles Davis è morto a sessantacinque anni con l’orgoglio artistico e razziale con cui è vissuto: una linea che si interrompe bruscamente, una stella che collassa, senza patetica agonia, una fulminea «uscita di scena» simile a tanti finali dei suoi innumerevoli concerti.
Appare, adesso, preveggente e denso di significato il fatto che nel luglio scorso (1991) il grande trombettista avesse accettato, per la prima volta, di guardarsi indietro. Infatti al festival jazz di Montreux – in una serata tutta dedicata a lui, poco dopo esser stato nominato, in terra di Francia, Cavaliere della Legion d’Onore -, Davis aveva risuonato gli immortali brani scritti e arrangiati insieme a Gil Evans trent’anni prima, accompagnato da un’orchestra guidata da Quincy Jones, direttore artistico del festival svizzero e suo profondo ammiratore.
Da sempre «the man with the horn» aveva seppellito il passato nel presente, nel quotidiano, nella costante ricerca di narrazione contemporanea, nella sfida contro se stesso e contro lo scorrere inarrestabile degli anni. Eppure Miles Davis era già «morto» – metaforicamente – tra la metà degli anni Settanta e il 1981, quando incidenti d’auto e problemi di salute, l’esaurimento della vena artistica nella gabbia di un jazz rock sempre più destrutturato e anche la voglia (come ha scritto senza ipocrisie nell’autobiografia Miles, apparsa nel 1990) di divertirsi ed uccidere il tempo tra le donne e la cocaina, lo portarono al ritiro dalle amate scene.

LA PISTA GIUSTA
Se ne sentì la mancanza, si soffriva per l’assenza (temporanea) delle sue scelte visionarie, delle sue medianiche intuizioni che l’hanno sempre portato a scegliere e a tratteggiare prima degli altri la pista sonora «giusta», quella al passo con i tempi, in profonda coerenza con la sua estetica di rinnovamento, che non voleva dire mettere al rogo il passato. Il be bop negli anni Quaranta, il cool jazz alla fine dello stesso decennio, l’hard bop dei Cinquanta, il jazz modale dal 1959, quello elettrico sul finire degli anni Sessanta e oltre, la ripresa degli anni Ottanta. Solo il trombettista (escludendo Duke Ellington) è riuscito a percorrere, con risultati di alto livello, una parabola tanto ampia nella vicenda del jazz, senza ripetersi in più di quarant’anni di carriera.
Atteso, liberatorio, messianico fu il suo ritorno nel 1981, ritorno in cui oggi non si può più sperare. Ora, che la morte è definitiva e si è chiuso un cerchio, Miles Davis sarà «cannibalizzato», secondo un rito comune agli eroi, ai miti, ai divi di tutti i tempi. Si parlerà dei suoi eccentrici modi di vestire, delle sue splendide donne, delle sue macchine sportive, dei dischi-progetti che non ha mai realizzato con Jimi Hendrix e con Prince, di tutto quanto lo ha reso un «personaggio» e un «opinion leader» e che, indubbiamente, a Davis piaceva.

MAGNETISMO
Eppure lui (che nell’autobiografia, scritta con Quincy Troupe, ha dichiarato, con dolore, di non essere stato un buon padre per i suoi figli) ha scoperto e valorizzato decine di musicisti, dall’immenso John Coltrane al bassista-produttore Marcus Miller, e, soprattutto, ha generato, dato vita e amato profondamente solo la musica.
E allora si accavallano nella mente il disarmante magnetismo del suo sguardo, la voce roca e quasi incomprensibile, l’atto di suonare – spesso rivolgendo la campana verso il palcoscenico – come annullandosi nello strumento, la sua lirica tromba sordinata nelle ballad degli anni Cinquanta (It Never Entered in My Mind) come in Time after Time o Human Nature negli Ottanta, i blues straordinari e densi dal boppistico Billie’s Bounce del 1945 a quelli a tempo lento (Star People) che ha tessuto e ritessuto ogni sera negli ultimi anni, la magia impalpabile dell’improvvisazione assoluta di Ascenseur pour l’échafaud (film di Louis Malle, 1958), la malinconia ora straziante ora velata di Saeta (in Sketches of Spain, 1960) e di Summertime (in Porgy and Bess, 1959) avvolta nelle nuvole orchestrali di Gil Evans, i liberatori orizzonti modali di So what (1959), la giungla metropolitana e psichedelica di Bitches Brew (1969), l’epica maestosità di Tutu (1986)… ad libitum.
Solo la morte ha definitivamente chiuso la campana della tromba magica e incantatoria di Miles Davis, con una sordina che, comunque, non riuscirà mai a distorcerne il suono.